Con l’affermazione della potenza cinese gli equilibri di potere si sono spostati ad est e negli ultimi anni è apparso chiaramente come a pagarne il costo più alto siano state da subito le minoranze già perseguita da decenni: i tibetani, gli uiguri della regione dello Xinjiang, i cittadini della Mongolia del Sud, quelli di Hong Kong, ai quali si aggiungono i taiwanesi, che potrebbero essere il prossimo bersaglio di Pechino. L’aggressiva emersione politica, economica e militare di Pechino va ben oltre i confini della Repubblica Popolare Cinese. Nel sud-est asiatico c’è un Paese, la Cambogia, geograficamente piccolo ma geopoliticamente tutt’altro che irrilevante. Con i suoi 16 milioni di abitanti circa, costituisce una frontiera che, nella contrapposizione sempre più tangibile a livello mondiale tra autocrazie e democrazie, merita attenzione.
Già tragicamente nota al mondo per aver subìto uno dei regimi totalitari più violenti della storia umana, quello comunista dei Khmer Rossi di Pol Pot, responsabile in meno di quattro anni, dall’aprile 1975 al gennaio 1979, di aver spazzato via, con il supporto della Cina, quasi tre milioni di persone su una popolazione di allora otto milioni, da quattro anni la Cambogia è tornata inesorabilmente sotto il controllo cinese. Dopo un periodo di quasi trent’anni in cui l’opposizione democratica è riuscita a conquistare limitati spazi di libertà, con le elezioni legislative del 2018 in Cambogia è tornato il regime a partito unico, quello del cosiddetto “Primo Ministro” Hun Sen, al potere ininterrottamente dal 1985. Oggi è uno dei capi di governo più longevi al mondo.

Brogli e abusi di potere hanno consentito a Hun Sen di eliminare l’opposizione democratica incarnata dal leader, in esilio a Parigi dal 2015, Sam Rainsy, e di consolidare il suo potere politico-economico d’intesa con la Cina che garantisce anche il sostegno militare. La Costituzione cambogiana prevede diritti e libertà, un’Assemblea Nazionale, una Corte Suprema, il principio della separazione dei poteri, ma si tratta di istituzioni empie e manovrate dall’uomo al comando e dalla sua famiglia. Tant’è vero che il primogenito, Hun Manet, si appresta a prendere le redini del Paese in una successione che il padre prepara da tempo e per la quale ha il placet di Pechino.

Di fatto, Cambogia è un territorio di proprietà di un uomo al di sopra della legge che controlla tutto, distribuisce prebende e denaro, sentenzia chi deve vivere in prigione e chi agli arresti domiciliari. E’ il caso di Kem Sokha, il presidente del Partito di Salvezza Nazionale Cambogiano (CNRP), arrestato nel 2017 e condannato lo scorso 3 marzo a 27 anni di arresti domiciliari con l’accusa di tradimento. Il 14 febbraio l’ultimo media indipendente, Voice of Democracy (VOD) è stato chiuso d’imperio da Hun Sen perché non avrebbe riportato correttamente una notizia riguardante il figlio, l’erede designato, Hun Manet. Così il Primo Ministro prepara le “elezioni” legislative previste per il 23 luglio di quest’anno.

La Cambogia non è semplicemente uno Stato corrotto, è uno Stato mafioso. Una cleptocrazia. Dopo decenni di aiuti provenienti dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti, dal Giappone e dall’Australia, Hun Sen oggi vive grazie agli ingenti investimenti di Pechino che però, a differenza di quanto fatto dai Paesi citati, comporta piena sottomissione.
La cooperazione con l’Occidente ha conseguito due risultati importanti: da un lato ha contribuito a sollevare la popolazione cambogiana dall’estrema povertà, visto che secondo la Banca Mondiale il tasso di povertà è sceso dal 53% dei primi anni 2000, al 17,8% del 2019/2020 pre-pandemia. Dall’altro, ha sostenuto le forze democratiche per affermare i diritti fondamentali. Quello che è mancato è stato lo sviluppo di un’autonomia piena. Il risultato è che se prima milioni di cambogiani erano ancora strutturalmente dipendenti dagli aiuti occidentali, oggi sono finiti sotto il giogo cinese.
Finanza, turismo, immobiliare, gioco d’azzardo, legname sono i principali settori su cui posa l’asse sino-cambogiano. In particolare, vediamo che la deforestazione e l’accaparramento illegale di terre continuano ad essere una piaga gravissima coperta dalla diffusa corruzione e dall’assenza di una stampa libera. È solo grazie al coraggio di alcune associazioni locali se la distruzione ambientale nel Paese non procede più speditamente. Il 10 dicembre il conflitto per la proprietà di alcuni terreni ha visto un nuovo episodio di violenza con la distruzione di alcune case e la cacciata di 19 persone di un villaggio. Nel caso specifico si tratta di una disputa che coinvolge circa 370 famiglie che devono fare i conti con i lavori di disboscamento da parte di Sok Samnang Development Co., Ltd., la società che rivendica la proprietà dell’area contesa. Nel marzo 2012 l’azienda ha ottenuto una concessione fondiaria economica (ELC) che copre 1.865 ettari di terreno boschivo nel Kulen Promtep Wildlife Sanctuary.
È solo un frammento, ma indicativo, delle ragioni per cui Hun Sen ha messo fuorilegge il CNRP guidato da Sam Rainsy e dopo il suo esilio, da Kem Sokha. È Rainsy stesso a spiegarlo: “La vera e unica ragione per cui Hun Sen ha sciolto il CNRP nel novembre 2017 è la paura dell’opinione pubblica che vuole la fine del suo regime autoritario, corrotto e arcaico, e l’inizio di un cambiamento democratico.”
Sam Rainsy, Saumura Tioulong e la vice presidente del partito Mu Sochua sono solo i principali membri dell’opposizione democratica condannati in contumacia per tradimento e diffamazione. Hun Sen ha perfino loro di fare ritorno in Cambogia per comparire al processo. La recente condanna a 27 anni di domiciliari del 70enne Kem Sokha è l’ulteriore conferma del pugno di ferro di Hun Sen e della ritrovata sintonia politico-culturale con l’autoritarismo cinese. Per i democratici di Phnom Penh la lotta è lungi dall’esser terminata.