Jianli Yang, sopravvissuto al massacro di Tienanmen ed ex prigioniero politico cinese, è fondatore e presidente di Citizen Power Initiatives for China e autore di For Us, the Living: A Journey to Shine the Light on Truth.
Introduzione
Negli ultimi due decenni si è assistito a una grave “siccità democratica” a livello mondiale. Non solo le democrazie consolidate hanno lottato per garantire il buon funzionamento dei processi e delle istituzioni democratiche al loro interno, ma la democrazia sta perdendo il suo appeal anche nei confronti degli Stati autoritari e semi-autoritari all’estero. Secondo un nuovo rapporto dell’organizzazione no-profit statunitense Freedom House, ogni anno, negli ultimi 17 anni, il numero di Paesi che hanno registrato un calo dei diritti politici e delle libertà civili è stato nettamente superiore a quello che ha registrato un aumento. Dal 2015, questa inquietante tendenza ha subito una brusca impennata: il periodo 2015-19 è stato il primo quinquennio – dall’inizio della terza ondata democratica nel 1974 – in cui sono stati più i Paesi che hanno abbandonato la democrazia (dodici) che quelli che vi sono passati (sette). Nel 2022, 35 Paesi hanno perso terreno nei diritti politici e nelle libertà civili, mentre 34 Paesi sono migliorati, segnando un deterioramento complessivo delle libertà globali.
Oggi la democrazia è in ritirata in tutto il mondo, anche se la resistenza dell’Ucraina all’aggressione russa dimostra la sua capacità di recupero. È imperativo creare una nuova ondata di democratizzazione per invertire il declino globale a livello internazionale.
Una delle principali cause del declino democratico globale è la Cina. Negli ultimi tre decenni, la Cina ha raggiunto una rapida crescita economica sotto un regime comunista monopartitico ampiamente stabile, diventando la seconda economia mondiale e colmando rapidamente il divario con gli Stati Uniti nei settori della scienza, della tecnologia e della difesa nazionale. La Cina ha ampliato notevolmente la sua influenza sulla scena internazionale, offrendo agli Stati autoritari del mondo un’attraente alternativa all’idea che l’unica strada per la modernità sia la democrazia liberale. L’ordine internazionale dominante del secondo dopoguerra è messo in discussione come mai prima d’ora. Secondo diversi sondaggi recenti, la maggioranza dei Paesi africani e mediorientali è favorevole al ruolo della Cina nel mondo. Negli ultimi anni, l’influenza della Cina non solo ha influenzato e controllato i Paesi e le regioni meno sviluppate attraverso progetti come la Belt and Road Initiative, ma è penetrata anche nelle democrazie, influenzando negativamente i modi di vita democratici ed esercitando una manipolazione sempre più evidente delle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite.
Il 9 e 10 dicembre 2021, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ospitato il primo dei due Vertici per la democrazia, riunendo i leader del governo, della società civile e del settore privato per definire un’agenda lungimirante per il rinnovamento democratico e per intraprendere un’azione collettiva per affrontare le maggiori minacce che le democrazie devono fronteggiare oggi. Il Presidente Biden ha giustamente riconosciuto che il futuro destino del mondo dipende dall’esito della lotta tra democrazia e tirannia, affermando che “la democrazia non nasce per caso, dobbiamo difenderla, lottare per essa, rafforzarla, rinnovarla”. Sebbene si tratti di un passo importante, i leader dei Paesi democratici e i leader della società civile rappresentati al Vertice non hanno proposto un programma concreto e fattibile di azione collettiva.
Ormai la necessità di una solidarietà di principio dovrebbe essere evidente. Da soli, anche gli Stati Uniti hanno grandi difficoltà a impedire al Partito Comunista Cinese – il regime totalitario a partito unico della Repubblica Popolare Cinese (RPC) – di minare i nostri valori democratici. La dipendenza dalla RPC, unita agli incentivi finanziari, ha l’effetto perverso di allontanare dai principi democratici ogni cosa, dalla politica interna, al comportamento di istituzioni private come la Disney o l’NBA, al tenore delle discussioni nei campus americani
Entrambi i principali partiti politici americani riconoscono giustamente questo problema, e non c’è stato molto disaccordo partitico, ad esempio, sulle sanzioni mirate per affrontare gli abusi del Partito Comunista Cinese (PCC) a Hong Kong, nello Xinjiang e in Tibet. Né i Democratici di spicco hanno criticato le risposte aggressive dell’attuale amministrazione alle minacce alla sicurezza nazionale poste dal successo delle aziende tecnologiche della RPC legate al PCC.
Il problema è che le singole democrazie sono ancora in gran parte abbandonate a se stesse, almeno formalmente, quando si tratta di guerre economiche derivanti da conflitti di valori fondamentali. Le alleanze di sicurezza esistono, ma sono state costruite per affrontare la coercizione militare, non quella economica.
Per affrontare questo problema, propongo una NATO economica per le democrazie del mondo.
La Cina è diventata sempre più abile nello sfruttare il potere economico per piegare le democrazie alla sua volontà.
Sono stato coinvolto nel movimento per i diritti umani e la democrazia in Cina sin da prima del massacro di Piazza Tienanmen nel 1989 e da allora sono pienamente impegnato in questa causa dalla mia base negli Stati Uniti. Decenni di esperienza nella difesa e nella ricerca di sostegno internazionale per il progresso dei diritti umani e della democrazia in Cina, sia negli Stati Uniti che in altre democrazie, non mi portano a credere ingenuamente che le democrazie saranno sempre in grado di sostenere i loro principi fondanti sulla questione dei diritti umani. Anche per i leader politici del mondo democratico, c’è spesso un ampio divario tra i valori professati e la pratica concreta della loro politica estera. Se tutte, o la maggior parte delle democrazie del mondo, fossero in grado di sostenere i propri valori, non sarebbe possibile che i principali violatori dei diritti umani del mondo, come Cina, Russia e Cuba, non ricevano abbastanza voti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per diventare membri del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il cui bilancio dei diritti umani, sia a livello nazionale che internazionale, è chiaramente al di sotto degli standard, come stabilito nella risoluzione delle Nazioni Unite che ha creato il Consiglio. Ho anche scoperto che, sebbene le ragioni per cui le democrazie non riescono a difendere i propri principi in materia di diritti umani siano complesse, c’è una ragione che gioca il ruolo più diretto, pratico e pervasivo, e questa ragione è semplice: “i soldi parlano”. La Cina sta usando il suo nuovo potere economico per costringere, adescare e infiltrare le democrazie e le organizzazioni internazionali, rendendo brutalmente difficile per il mondo democratico le questioni relative ai diritti umani e altre questioni legate a conflitti di valori fondamentali con il mondo democratico, spesso costringendo le democrazie a recedere dalle loro posizioni di valore. Sebbene la Cina abbia usato raramente la coercizione militare nel periodo successivo alla Guerra Fredda, è diventata sempre più abile nell’usare la coercizione non militare, compreso il potere diplomatico ed economico.
Nel 2010, il Comitato per il Premio Nobel per la Pace di Oslo ha assegnato il Premio Nobel per la Pace al dissidente cinese imprigionato Liu Xiaobo. (Quell’anno ho rappresentato la famiglia e i colleghi di Liu Xiaobo alla cerimonia di consegna del premio). Sebbene il comitato abbia sede solo geograficamente a Oslo e il premio sia indipendente dalle decisioni del governo, la Norvegia ha comunque pagato un prezzo molto alto per aver assegnato il premio per la pace a un dissidente cinese dichiarato e celebrato a livello internazionale. Il PCC, umiliato, ha cancellato le visite di scambio tra i due Paesi, ha interrotto le trattative commerciali e ha messo a rischio i negoziati sugli accordi bilaterali di libero scambio. Dopo che la Cina ha imposto sanzioni sulle esportazioni di salmone norvegese in Cina, la quota di mercato della Norvegia in Cina per il salmone fresco, una delle principali esportazioni del Paese, è scesa da circa il 90% nel 2010 a meno del 30% nella prima metà del 2013. Le aziende norvegesi, soprattutto le imprese statali e parzialmente statali, hanno avuto difficoltà a ottenere contratti e a operare in Cina.
Le sanzioni sono continuate anche dopo la salita al potere di Xi Jinping nel 2012. Alla fine la Norvegia ha ceduto. Nel maggio 2014, il governo norvegese ha annunciato pubblicamente che il primo ministro Erna Solberg non avrebbe incontrato il Dalai Lama. Nel dicembre 2016, i ministri degli Esteri di Cina e Norvegia si sono incontrati a Pechino e hanno firmato una dichiarazione congiunta. “Le relazioni si sono deteriorate”, si leggeva nella dichiarazione, “a causa dell’assegnazione del Premio Nobel per la Pace e degli eventi collegati al Premio”. La Norvegia “è pienamente consapevole della posizione e delle preoccupazioni della parte cinese e ha lavorato attivamente” per ripristinare le relazioni. La Norvegia “rispetta pienamente il percorso di sviluppo e il sistema sociale della Cina” ed è impegnata nella politica di una sola Cina. La dichiarazione aggiunge che il governo norvegese “attribuisce grande importanza agli interessi fondamentali e alle principali preoccupazioni della Cina” e “non sosterrà azioni che li compromettano”.
La Cina ha interrotto gli incontri ministeriali con le controparti britanniche nel maggio 2012, quando il primo ministro David Cameron ha incontrato il Dalai Lama e ha dichiarato che le relazioni non sarebbero state ripristinate finché la Gran Bretagna non avesse “smesso di sostenere le forze anticinesi”. L’affronto ha suscitato un intenso dibattito ai più alti livelli del governo britannico sui legami del Regno Unito con la Cina. In una riunione privata a cui partecipò Cameron, l’allora cancelliere George Osborne disse, in particolare a un gruppo di ministri, che le relazioni della Gran Bretagna con la Cina erano di tale importanza economica e geopolitica che non si poteva permettere che le sensibilità britanniche sui diritti umani complicassero le cose. Osborne vinse l’argomentazione e guidò una missione commerciale di cinque giorni in Cina nell’ottobre 2013, aprendo la strada a Pechino per investire nella nuova generazione di centrali nucleari britanniche e ponendo le basi per la visita del Primo Ministro David Cameron a Pechino nel dicembre successivo. Seguendo il consiglio di Osborne, Cameron ha preso le distanze dal Dalai Lama durante il suo viaggio in Cina. La sua visita, durante la quale è stato accompagnato da 100 uomini d’affari, si è concentrata sulla promozione delle relazioni commerciali con la Cina, potenza economica mondiale. Il Regno Unito ha “corretto l’errore“, come richiesto da Pechino, anche se molti gruppi per i diritti umani non hanno gradito la nuova posizione.
Il Regno Unito non è solo. Il governo cinese minaccia spesso che gli incontri tra i funzionari dei suoi partner commerciali e il Dalai Lama saranno accolti con ostilità e finiranno per danneggiare le relazioni commerciali con la Cina. Questo è accaduto a numerosi Paesi, in particolare alla Francia e, più recentemente, alla Mongolia.
Negli ultimi anni, la brutale persecuzione della Cina nei confronti degli Uiguri, una minoranza etnica musulmana, ha ricevuto un’ampia attenzione internazionale. Gli Stati Uniti e altre democrazie hanno pubblicamente condannato la RPC per aver sfruttato e commesso un genocidio contro gli Uiguri nello Xinjiang. Nel dicembre 2021, gli Stati Uniti hanno approvato la legge sulla prevenzione del lavoro forzato degli Uiguri, che mira all’oppressione e al genocidio del PCC contro gli Uiguri, e hanno imposto sanzioni commerciali alla Cina. Tuttavia, tutti i Paesi musulmani hanno ceduto alla Cina per motivi economici e hanno paura di difendere i loro fratelli e sorelle musulmani nello Xinjiang. A parte gli Stati autoritari, anche le democrazie a maggioranza musulmana come l’Indonesia, la Malesia e il Bangladesh tacciono sulle atrocità del PCC.
Come dimostrano gli esempi sopra citati, il modello cinese di utilizzare mezzi economici per raggiungere i propri obiettivi su questioni che coinvolgono conflitti di valore è continuato dall’era di Hu Jintao a quella di Xi Jinping. Anzi, sotto Xi si è intensificato.
Il recente emergere di un sostegno reciproco all’interno del mondo democratico per contrastare la coercizione economica della Cina è un passo nella giusta direzione.
Negli ultimi anni, diverse democrazie sono state soppresse economicamente dalla Cina per aver sostenuto la democratica Taiwan o per aver chiesto indagini internazionali sulle origini della pandemia COVID. Finora nessuna ha ceduto. Di seguito analizziamo come hanno reagito, il che è istruttivo per il quadro da me proposto per la risposta del mondo democratico alle ritorsioni economiche della Cina su valori fondamentali in conflitto.
Caso 1
Nel settembre 2017, il senatore ceco Miloš Vystrčil (che nel frattempo è stato eletto presidente del Senato) ha visitato Taiwan, dove ha dichiarato in un discorso: “Io sono taiwanese”. Questo sostegno simbolico a Taiwan da parte della Repubblica Ceca fece arrabbiare Pechino. All’inizio dello stesso anno, dopo aver saputo di possibili visite a Taiwan da parte di legislatori cechi, l’ambasciata cinese a Praga ha inviato una lettera all’ufficio del presidente ceco minacciando ritorsioni contro importanti aziende ceche se alti funzionari cechi avessero proseguito con le visite previste a Taiwan. La lettera diceva che aziende come la casa automobilistica Škoda, l’istituto di credito al consumo Home Credit Group e il produttore di pianoforti Petrof avrebbero sofferto se il legislatore ceco Jaroslav Kubera avesse visitato l’isola autogovernata come previsto. Poco dopo il viaggio di Vystrčil a Taiwan, un acquirente cinese ha cancellato un ordine di 5,3 milioni di corone ceche (circa 230.000 dollari) da Petrof.
Praga era sottoposta a un’immensa pressione perché il prodotto interno lordo della Repubblica Ceca sarebbe diminuito di circa l’1% se tutte le esportazioni del Paese verso la Cina fossero state interrotte.
Finora, tuttavia, Praga ha resistito alle pressioni. Non solo il governo e il popolo ceco sono rimasti fermi sui principi, ma alcuni dei passi compiuti da Taiwan e dalla Repubblica Ceca hanno giocato un ruolo importante nel mitigare il danno economico. Mentre il presidente di Taiwan Tsai Ing-wen ha invitato i cittadini taiwanesi a comprare pianoforti cechi, anche i cechi hanno praticato l’auto-aiuto.
Dopo che il cliente cinese ha annullato l’ordine di acquisto con Petrof, il miliardario ceco Karel Komárek è intervenuto e ha acquistato i pianoforti rifiutati. Gli imprenditori cechi della delegazione di Vystrčil sono tornati in patria con diversi accordi firmati con partner commerciali taiwanesi, e Praga e Taipei stanno valutando un accordo di volo diretto. Le aziende taiwanesi presenti nella Repubblica Ceca – Foxconn è sempre in cima alla classifica – hanno contribuito al trasferimento di competenze tecnologiche e alla creazione di posti di lavoro locali.
Caso 2
La Cina e l’Australia hanno firmato un accordo di libero scambio nel 2015, cementando una forte relazione commerciale storica basata sulla domanda cinese di minerale di ferro australiano per i suoi macchinari industriali. Tuttavia, le relazioni hanno iniziato a mostrare segni di tensione dopo che l’Australia è stata uno dei primi Paesi a sollevare preoccupazioni per la sicurezza nazionale riguardo a Huawei e ha introdotto leggi sulle interferenze straniere proprio per affrontare la minaccia rappresentata dalla Cina. Le relazioni commerciali bilaterali hanno toccato il fondo nel 2020, quando l’Australia ha chiesto un’indagine indipendente sulle origini della pandemia COVID-19, che la Cina ha visto come un attacco diretto alla sua reputazione – l’ultima di quelle che il governo cinese ha descritto come una “serie di azioni sbagliate” da parte di Canberra. (Le prove sempre più evidenti danno credito all’ipotesi, un tempo tabù, della “fuga di notizie dal laboratorio”, ovvero che la pandemia sia stata causata molto probabilmente dalla fuga di un coronavirus geneticamente modificato dall’Istituto di virologia di Wuhan, con conseguenze sanitarie, economiche e sociali disastrose in tutto il mondo).
Nei mesi successivi, le autorità cinesi hanno sospeso le licenze di importazione per i principali produttori di carne bovina australiana, hanno ordinato ad alcune centrali elettriche e acciaierie di smettere di acquistare carbone australiano e hanno imposto tariffe punitive su orzo e vino. Successivamente, nel marzo 2021, la Cina ha annunciato che avrebbe esteso per altri cinque anni il dazio antidumping del 220% imposto sul vino australiano.
Il presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha esortato i consumatori taiwanesi ad acquistare più vino australiano. Nel frattempo, Canberra cercava attivamente una via d’uscita. Nel 2022 ha firmato con l’India l’Accordo di cooperazione economica e commerciale India-Australia, con il quale i due Paesi si sono reciprocamente impegnati a tagliare le tariffe sui beni di oltre l’85% per ridurre la loro dipendenza dalla Cina.
Caso 3
Le relazioni economiche e commerciali di Taiwan con la Cina sono diventate sempre più strette negli ultimi due o tre decenni, con le esportazioni di Taiwan verso la Cina che rappresenteranno il 43,8% delle sue esportazioni entro la fine del 2020 e un surplus commerciale di oltre 170 miliardi di dollari, rendendo facile per la Cina utilizzare questo vantaggio contro la Taiwan democratica e autogestita, che Pechino vede come una provincia rinnegata.
Alla fine del febbraio 2021, di fronte al crescente allineamento di Taiwan con l’Occidente (in termini di valori democratici, risposta al COVID-19, questioni di catena di approvvigionamento globale, geopolitica e altro) e al conseguente aumento del suo status internazionale, Pechino ha inviato un forte segnale di avvertimento a Taipei annunciando improvvisamente la sospensione delle importazioni di ananas da Taiwan alla vigilia delle “Due Sessioni” annuali della Cina. (Sei mesi dopo, la sospensione è stata estesa alle mele da zucchero taiwanesi). La notizia del divieto cinese di importazione di ananas taiwanesi ha immediatamente scatenato un’indignazione nella società taiwanese. In risposta, il ministro degli Esteri taiwanese Joseph Wu ha lanciato una campagna “Freedom Pineapple” su Twitter, esortando il pubblico a comprare ananas taiwanesi. Il presidente Tsai Ing-wen ha persino visitato personalmente la città meridionale di Kaohsiung per sostenere pubblicamente gli agricoltori mangiando ananas davanti alle telecamere.
Diversi Paesi e regioni amici di Taiwan, tra cui Giappone, Australia e Hong Kong, hanno aumentato gli ordini di ananas dalla nazione insulare. In alcune interviste, i consumatori giapponesi hanno sottolineato che non possono sopportare che la Cina faccia il prepotente con Taiwan, quindi devono sostenere e tifare per Taiwan. L’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe ha appoggiato gli ananas taiwanesi sul suo account personale di Twitter, condividendo una sua foto con cinque ananas taiwanesi. Il presidente taiwanese Tsai ha ritwittato e risposto in giapponese, dicendo: “Se cinque non sono abbastanza, te ne manderò altri!”.
Il 2 agosto 2022, l’allora presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti Nancy Pelosi ha visitato Taiwan, provocando una dura reazione da parte della Cina continentale. Oltre a lanciare esercitazioni militari a fuoco vivo intorno alle acque e allo spazio aereo di Taiwan, Pechino ha anche lanciato una serie di sanzioni economiche contro Taipei. In particolare, il governo cinese ha sospeso l’esportazione di sabbia naturale a Taiwan e l’importazione di pompelmi, limoni, arance, capesante e sgombri congelati da Taiwan. La Cina ha inoltre sospeso l’importazione da Taiwan di 2.066 prodotti (tra cui tè e miele) di oltre 100 aziende di prodotti alimentari trasformati.
Caso 4
Nel maggio 2021, la Lituania – una piccola democrazia baltica con meno di tre milioni di abitanti – si è ritirata da un forum diplomatico di 17 Paesi dell’Europa orientale e centrale più la Cina (17+1) per promuovere l’iniziativa “One Belt, One Road” di Xi Jinping, un progetto infrastrutturale multimiliardario. Nel luglio 2021, la Lituania ha annunciato di aver accettato la richiesta di Taiwan di aprire un “Ufficio di rappresentanza di Taiwan” a Vilnius, la capitale lituana. Gli uffici di Taiwan nei Paesi che non hanno relazioni diplomatiche formali sono di solito istituiti con il nome di “Taipei”, come l’Ufficio di rappresentanza di Taipei nel Regno Unito e l’Ufficio di rappresentanza economica e culturale di Taipei negli Stati Uniti.
Considerando queste azioni come provocatorie da parte della Lituania, Pechino ha richiamato il suo ambasciatore da Vilnius nell’agosto 2021. (La Lituania ha risposto a sua volta richiamando il proprio ambasciatore da Pechino il mese successivo). Circa un anno dopo, la sera del 12 agosto 2022, il sito ufficiale del Ministero degli Affari Esteri cinese ha dichiarato che Agnė Vaiciukevičiūtė, viceministro lituano dei Trasporti e delle Comunicazioni, aveva visitato Taiwan violando il principio della Cina unica del PCC e interferendo negli affari interni della RPC. In risposta, la Cina lo ha sanzionato personalmente, ha sospeso i contatti tra i rispettivi ministeri dei trasporti e delle comunicazioni dei due Paesi e ha interrotto tutti gli scambi e la cooperazione nel trasporto stradale bilaterale. La Cina ha interrotto la circolazione regolare di treni merci verso la Lituania, rendendo quasi impossibile per molti esportatori lituani vendere le proprie merci in Cina. Nonostante le sue piccole dimensioni, la Lituania è sorprendentemente importante nelle considerazioni della Cina, in parte a causa del suo ruolo di via di transito per i treni che trasportano merci dalla Cina all’Europa. La Cina ritiene che la Lituania abbia svolto un ruolo cruciale nel crollo dell’Unione Sovietica e il PCC ha studiato questa storia nella speranza di prevenire simili forze centrifughe in patria. Dopo che la Lituania divenne la prima repubblica sovietica a dichiarare l’indipendenza da Mosca nel 1990, la repubblica separatista era guidata da Vytautas Landsbergis, il nonno dell’attuale ministro degli Esteri lituano Gabrielius Landsbergis.
L’interruzione della fornitura di vetro, componenti elettronici e altri articoli di produzione cinese necessari ai produttori lituani ha colpito ancora più duramente l’economia lituana. Circa una dozzina di aziende che si erano affidate a prodotti cinesi hanno ricevuto lettere quasi identiche dai fornitori cinesi, in cui si affermava che l’interruzione di corrente aveva reso difficile l’evasione degli ordini. L’industria lituana del laser, una delle più ricercate del Paese, aveva il 30% delle esportazioni verso la Cina e si è trovata ad affrontare un’enorme pressione.
Nel novembre 2021, la Lituania si è ritirata dal blocco di cooperazione “17+1” della Cina con l’Europa centrale e orientale. Le sanzioni di Pechino contro la Lituania hanno lasciato l’amaro in bocca anche agli Stati baltici di Estonia e Lettonia. Nell’agosto del 2022, Estonia e Lettonia hanno annunciato la loro uscita dal gruppo di cooperazione, riducendolo a “14+1”.
Da allora, Taiwan ha incoraggiato una joint venture tra le sue aziende di semiconduttori e le aziende lituane di laser. Inoltre, le aziende lituane che fanno affari con Taiwan possono chiedere finanziamenti al Paese. Taiwan ha annunciato la creazione di un Fondo per gli investimenti nell’Europa centrale e orientale (CEEIF) da 200 milioni di dollari e di un miliardo di dollari di finanziamenti per promuovere la cooperazione bilaterale tra imprese taiwanesi e lituane. Finora, Taiwan ha investito molto denaro e capitale politico per aiutare Vilnius a mantenere la rotta.
Nel febbraio 2022, il ministro degli Esteri lituano Gabriel Landsbergis si è recato a Canberra per inaugurare la prima ambasciata di Vilnius in Australia. Ha incontrato il ministro degli Esteri australiano Marius Payne e hanno concordato di aumentare la cooperazione bilaterale sulle sfide poste dalla pressione cinese su entrambi i Paesi.
L’intera Unione europea (UE) si è schierata a favore della Lituania. Il presidente francese Emmanuel Macron si è impegnato a perseguire con forza le contromisure contro l’aggressione economica della Cina nei confronti degli Stati membri durante la presidenza dell’UE del suo Paese. Il 26 aprile 2022, l’UE ha approvato 130 milioni di euro (circa 190 milioni di dollari) di assistenza finanziaria per affrontare la “situazione eccezionale” causata dalle restrizioni commerciali discriminatorie della Cina nei confronti della Lituania.
Proposta di una “NATO” economica
Non è che il mondo democratico non riconosca la minaccia rappresentata dalla Cina e non è che non riconosca l’importanza dell’azione collettiva delle democrazie. In questo dilemma, come nel classico scenario del dilemma del prigioniero, la scelta razionale di ciascun individuo (la scelta di massimizzare l’interesse personale dopo aver considerato l’ambiente generale e aver calcolato i guadagni/perdite e i rischi delle varie azioni possibili) produce un risultato collettivamente irrazionale, peggiorando l’ambiente generale e rendendo, in ultima analisi, ogni attore una vittima. In altre parole, la razionalità individuale produce irrazionalità collettiva. Dopo il massacro di Piazza Tienanmen, le principali democrazie hanno imposto sanzioni economiche collettive alla Cina, ma dopo che quest’ultima ha adottato la strategia del “mercato per ogni cosa”, una dopo l’altra, a partire dal Giappone, le singole democrazie – compresi gli Stati Uniti – si sono trovate di fronte al richiamo dell’enorme mercato cinese. Le decisioni razionali prese dalle singole democrazie, a partire dal Giappone, di fronte al richiamo dell’enorme mercato cinese (se gli altri entrano nel mercato cinese e loro entrano nel mercato cinese, gli altri guadagneranno di più e loro guadagneranno di meno, e se gli altri non entrano nel mercato cinese e loro entrano nel mercato cinese, guadagneranno di più, quindi in entrambi i casi la scelta razionale è quella di entrare nel mercato cinese) hanno gradualmente portato le democrazie a un risultato collettivamente irrazionale.
Alla fine, le democrazie mondiali sono rinsavite e si sono rese conto che la ricerca di sviluppo economico della Cina non era così semplice o innocente come Pechino aveva preteso. A quel punto, la Cina era diventata una superpotenza totalitaria a tutti gli effetti, con un programma strategico di egemonia militare, tecnologica ed economica, ricorrendo persino a un palese furto di proprietà intellettuale (PI). È diventato chiaro che la Cina rappresentava (e continua a rappresentare) la più grande minaccia all’ordine internazionale della libertà e dello Stato di diritto, e persino al nostro stile di vita democratico in patria; ma ormai era troppo tardi per uscire dalla situazione. In un momento in cui i leader democratici del mondo, compreso il Presidente degli Stati Uniti Biden, sono determinati a unire gli sforzi per contrastare le pratiche predatorie del PCC, il problema più grande che dobbiamo affrontare è la dipendenza radicata dell’economia di quasi tutti i Paesi dalla Cina.
Sarebbe ingenuo pensare che solo le economie più piccole ne siano colpite, come abbiamo detto sopra per il Regno Unito e l’Australia. In realtà, dobbiamo riconoscere che tutti i Paesi sono interessati, compresi gli Stati Uniti e la Germania, la più grande economia europea. Ci sono numerosi esempi di Stati Uniti e Germania che hanno compromesso i loro principi fondamentali per la preoccupazione di perdite economiche nelle relazioni con la Cina, per non parlare di individui e aziende con interessi in gioco.
Come già accennato, il problema principale per il mondo democratico è l’eccessiva dipendenza dell’economia di ogni Paese dalla Cina. Entro il 2020, la Cina sarà il principale partner commerciale degli Stati Uniti e uno dei primi tre partner commerciali della maggior parte degli alleati americani, tra cui Germania, Giappone, India, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda, Argentina, Brasile, Regno Unito, Canada, Corea del Sud, Taiwan, Messico e Cile, solo per citarne alcuni. E le democrazie più piccole e fragili sono ancora in gran parte abbandonate a se stesse.
Senza dubbio, armata di leva economica, la Cina è diventata una potente forza antidemocratica che sfida l’ordine internazionale liberale basato sulle regole e guidato dagli Stati Uniti. La Cina è diventata sempre più abile nell’usare il suo potere economico per costringere le democrazie su questioni basate sui valori, in particolare sui diritti umani.
Immagino che tutti noi vogliamo trovare il modo di affrontare questa situazione disastrosa, per quanto possibile. Ma la domanda rimane: Quanto denaro è disposto o in grado di perdere un individuo, un’azienda o un Paese per opporsi al brutale regime totalitario cinese? Dobbiamo ammettere che probabilmente è troppo chiedere ai pescatori norvegesi, agli agricoltori canadesi, agli uomini d’affari cechi e lituani, o anche agli imprenditori americani e tedeschi di sacrificare individualmente i propri mezzi di sostentamento sull’altare dei diritti umani. C’è un limite. Dobbiamo essere idealisti ma anche realisti. Ma qual è la soluzione? La saggezza convenzionale ci dice che “divisi si cade”. Ma il governo cinese eccelle nella strategia del divide et impera. Le democrazie del mondo devono rispondere unite e all’unisono.
Come abbiamo notato in precedenza, negli ultimi anni, in risposta ai conflitti basati sui valori, il Giappone, Taiwan, l’Australia, la Repubblica Ceca, la Lituania e altri Paesi, tra cui l’UE, si sono uniti nel sostegno reciproco per contrastare la coercizione economica della Cina. Questo ci indica la giusta direzione.
Ma quanto possono durare questi atti di assistenza reciproca così benefici ed efficaci? Queste democrazie (compresa l’UE) saranno in grado di mantenere i loro valori forti e il loro sostegno reciproco quando il panorama geopolitico cambierà (ad esempio, quando la Cina adotterà una strategia sempre più divisiva) e le strutture di interesse si evolveranno? I dati storici a questo proposito sono a dir poco preoccupanti. Gli stessi Stati Uniti hanno alle spalle una lunga storia in cui hanno sostenuto a gran voce la democrazia in linea di principio, ma sono scesi a compromessi con la democrazia nella pratica. A lungo andare, questa abitudine minerà, anziché far progredire, il futuro della democrazia globale.
Per questo le democrazie mondiali devono stabilire uno standard di assistenza reciproca basato su regole e valori condivisi, anziché affidarsi alla discrezionalità unilaterale dei singoli Stati. Nel 2004, i macroeconomisti Edward Prescott e Finn Kydland hanno vinto il Premio Nobel per l’Economia per il loro lavoro sul concetto di “incoerenza temporale”, in cui hanno introdotto un’importante conclusione: le regole sono migliori della discrezionalità perché i partiti sono obbligati a non cambiare le loro politiche, anche se ciò potrebbe essere vantaggioso per loro. Se ogni parte ha la discrezionalità di cambiare la propria politica, sorge un problema di incoerenza temporale e la credibilità e l’impegno diventano difficili da stabilire.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, che ha scatenato una rivalità ideologica, politica e militare di lunga durata tra gli Stati Uniti e l’URSS (all’epoca le due superpotenze mondiali), è stata istituita l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO), che riunisce gli alleati dell’Europa occidentale e del Nord America con l’impegno di difendersi militarmente in caso di attacco sovietico. Questa alleanza ha resistito (passando dai 12 Stati membri fondatori ai 30 di oggi) e mantiene ancora il principio fondante della sicurezza collettiva, secondo cui un attacco a uno è considerato un attacco a tutti. L’importanza della NATO e delle sue funzioni speciali è diventata ancora più evidente dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin nel febbraio 2022.
L’organizzazione economica di democrazie basata sui valori che propongo avrebbe lo scopo di impegnarsi sia nella difesa collettiva che nell’offesa collettiva su questioni legate ai valori. Se applichiamo il principio della NATO della reciproca difesa militare alla sfera economica, ogni volta che la Cina usa la coercizione economica per intimidire uno Stato membro su questioni di diritti umani, ad esempio, gli altri dovrebbero automaticamente e immediatamente rispondere aumentando gli scambi con il membro intimidito. Questo aiuterà a rompere il dilemma dell’azione collettiva in cui tutte le democrazie sono rimaste intrappolate. Questo è molto importante per tutti, soprattutto per i Paesi più piccoli. Secondo l’organizzazione del trattato da me proposta, se un Paese non democratico si ritorce economicamente contro uno Stato membro per aver difeso i principi democratici, tutti gli altri membri del trattato devono intervenire proattivamente in sua difesa per contribuire ad alleviare il dolore economico che ne deriva.
La sicurezza economica è il pilastro più importante della democrazia. Ritengo che il concetto di NATO possa essere ampliato per includere tutte le democrazie, al fine di garantire la loro vitalità economica e di contrastare la coercizione economica della Cina, offrendo al contempo ai Paesi in via di sviluppo un’opzione migliore e un futuro economico più luminoso senza dover ricorrere ad azioni militari. Propongo quindi una versione economica della NATO.
Come dovrebbe funzionare una “NATO” economica
L’organizzazione economica basata sui valori che propongo sarebbe una coalizione globale delle democrazie mondiali (così come di altri Paesi, territori e partner con valori universali condivisi) per difendersi dagli attacchi economici, compreso l’uso coercitivo di strumenti economici e finanziari, da parte di regimi autoritari che cercano di minare la democrazia e lo stile di vita democratico.
I criteri per l’adesione includono (1) avere un governo democraticamente eletto e (2) essere firmatari della Dichiarazione universale dei diritti umani (UDHR) e del Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), con leggi nazionali emanate per attuare i diritti sanciti da questi due documenti. Inoltre, ogni Paese firmatario deve emanare una legge sui diritti umani che li colleghi a tutti gli aspetti delle relazioni diplomatiche con le dittature, comprese le valutazioni periodiche e le relazioni esecutive al Parlamento o al Congresso.
Nell’ambito dell’alleanza economica “NATO” da me proposta, un attacco economico da parte di un regime totalitario (compreso il sabotaggio monetario o l’imposizione di sanzioni o embarghi infondati a scopo coercitivo, come punizioni o ritorsioni per critiche) che cerchi di destabilizzare uno o più Stati membri dell’alleanza sarà considerato un attacco contro tutti.
Anche in questo caso, l’obiettivo primario della “NATO” economica proposta sarebbe quello di garantire la sicurezza economica di tutti gli Stati membri attraverso un’azione collettiva. La sicurezza economica collettiva può essere raggiunta attraverso misure quali l’assorbimento di beni e servizi lasciati nel limbo da sanzioni finanziarie o dazi imposti da regimi autocratici e la fornitura di fondi per compensare le industrie e i lavoratori degli Stati membri colpiti.
L’alleanza dovrebbe avere un “Consiglio economico della NATO” responsabile della formulazione di strategie e politiche di ampio respiro, nonché del coordinamento e dell’attuazione di azioni volte a rafforzare il potere economico dei Paesi democratici.
Un’alleanza economica “NATO” includerebbe vari requisiti e diritti per i membri firmatari, tra cui i seguenti:
– Le nazioni firmatarie sarebbero tenute ad acquistare una “assicurazione contro le crisi”, creando di fatto un fondo di assistenza comunitaria. Tutti gli Stati membri contribuirebbero al fondo, che verrebbe utilizzato per assistere i Paesi e i partner che subiscono attacchi economici da parte di qualsiasi regime totalitario, evitando o mitigando così gli effetti negativi della coercizione economica o della guerra.
– Le nazioni firmatarie sarebbero obbligate a utilizzare i loro mercati per aiutare gli altri membri, impedendo ai regimi autocratici di sfruttare il sistema di libero scambio dei Paesi democratici per aumentare la loro forza collettiva.
– Le nazioni firmatarie possono portare in discussione al Consiglio qualsiasi questione che riguardi la loro sicurezza economica, oppure possono chiedere al Consiglio di invocare un’azione economica collettiva per contrastare gli attacchi economici dei regimi autocratici; il Consiglio delibererà a maggioranza.
– Le nazioni firmatarie dovrebbero confrontarsi congiuntamente con i Paesi che violano i diritti umani su varie piattaforme globali e formulare misure punitive congiunte per i singoli casi di violazione dei diritti umani. Tali misure potrebbero includere l’imposizione di sanzioni economiche, il boicottaggio di eventi culturali, ecc.
L’alleanza dovrebbe identificare e adottare misure per mitigare le vulnerabilità economiche e finanziarie agli attacchi o alle aggressioni totalitarie. Ad esempio, l’alleanza deve formulare e attuare politiche per eliminare la dipendenza economica dai regimi autocratici lungo tutta la catena del valore, concentrandosi sulla creazione di una catena di approvvigionamento globale sicura, in grado di sostenere guerre economiche o attacchi da parte di regimi totalitari.
L’alleanza deve rafforzare il controllo sulle risorse della comunità e impedire ai regimi totalitari di ottenere capitali, talenti high-tech e tecnologie critiche, colmando al contempo il divario digitale globale per espandere il commercio elettronico fornendo un Internet libero e aperto. L’alleanza dovrebbe disporre di strategie complete per investire nello sviluppo di infrastrutture orientate alla domanda ed economicamente vantaggiose per i suoi membri, al fine di garantire la sicurezza economica a lungo termine.
Conclusione
È innegabile che il mondo sia entrato in una nuova guerra fredda. In effetti, sia il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden che il Segretario Generale cinese Xi Jinping hanno riconosciuto questo fatto, sebbene entrambi abbiano evitato il termine “guerra fredda”. Le crescenti divisioni geopolitiche sulla scia dell’invasione mortale dell’Ucraina da parte della Russia hanno messo a fuoco la nuova guerra fredda. È una guerra fredda perché il conflitto di valori è diventato la radice di conflitti militari, economici e diplomatici duraturi. Senza un conflitto di valori fondamentali, tutti gli altri conflitti sarebbero facilmente risolvibili in un ordine internazionale basato sulla libertà e sullo Stato di diritto. Per il mondo democratico, la questione non è se riconoscere o meno questa nuova guerra fredda (o comunque la si voglia chiamare), ma come combatterla e vincerla. La “NATO” economica che propongo è la risposta strutturale più fondamentale ed efficace alla grave sfida alla democrazia mondiale posta dalla Cina e da altre dittature.
La “NATO” economica che propongo non sarebbe un’organizzazione militare come la NATO, né un’organizzazione di sicurezza guidata dagli Stati Uniti come il Dialogo Quadrilaterale sulla Sicurezza (QUAD) o AUKUS. Sebbene la nuova Guerra Fredda non si manifesterà certamente in un conflitto militare, sono giustificate forti alleanze militari delle democrazie contro la Cina. Mentre i Paesi democratici stanno adottando misure collettive per contrastare le aggressioni e le minacce della Cina, una nuova ondata di democrazia non è ancora arrivata. Il motivo si riduce a “è l’economia, stupido“, per citare James Carville. Il recente tasso di crescita a due cifre guidato dalla politica cinese e il surplus commerciale annuale di 404 miliardi di dollari con i soli Stati Uniti hanno spostato l’equilibrio di potere, mentre la Cina ha armato la sua economia attraverso programmi come la Belt and Road Initiative per attirare i Paesi in via di sviluppo e sanzionare i suoi critici democratici. Oggi i conflitti di valore abilitati dal potere economico stanno diventando più comuni e fondamentali, per cui le misure della “NATO” economica servirebbero come base per questi accordi militari e di sicurezza.
La “NATO” economica non sarebbe un’organizzazione internazionale come l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), che promuove il commercio globale e arbitra le controversie commerciali. L’OMC è stata usata senza successo come leva per promuovere i diritti umani in Cina durante il dibattito se e come ammettere la Cina più di 20 anni fa. La “NATO” economica – che in un certo senso compenserebbe ciò che mancava allora – sarebbe un’organizzazione economica basata sui valori che non solo può aiutare a promuovere il progresso della Cina in materia di diritti umani, ma può anche coordinare le sue potenti forze economiche per rispondere collettivamente ed efficacemente quando gli Stati membri entrano in conflitto economico con la Cina per promuovere il progresso della Cina in materia di diritti umani, difendere i propri valori democratici o difendere un ordine internazionale liberale basato su regole.
In effetti, è emerso che l’OMC non è l’istituzione migliore per risolvere le controversie commerciali quando nascono da conflitti di valore. Ad esempio, nel dicembre 2020, l’Australia ha presentato un reclamo all’OMC per le tariffe cinesi su orzo e vino. L’OMC ha istituito dei panel nel maggio e nell’ottobre 2021 per decidere rispettivamente sulle controversie relative all’orzo e al vino. I rapporti vengono solitamente pubblicati dopo 18 mesi; gli eventuali errori riscontrati devono poi essere corretti entro un periodo di tempo “ragionevole” (di solito almeno 15 mesi). Ciò significa che possono essere necessari anni per risolvere un caso. Un altro esempio: nel dicembre 2021, il gigante tedesco dei ricambi auto Continental ha subito pressioni da parte della Cina affinché smettesse di utilizzare componenti prodotti in Lituania. La Federazione delle industrie tedesche si è dimostrata più comprensiva e favorevole al reclamo presentato dall’UE all’OMC per conto della Lituania, ma il reclamo dell’UE all’OMC non ha permesso all’OMC di aprire immediatamente un’indagine contro la Cina o di imporre qualsiasi tipo di sanzione alla Cina. La risoluzione di un caso all’OMC richiede molto tempo e richiede innanzitutto un coordinamento tra le due parti in causa, che di solito non porta a nessun risultato quando la controversia nasce da un conflitto di valori. Inoltre, l’attuale meccanismo di sanzioni dell’OMC è spesso inattivo, quindi l’approccio dell’UE non avrà l’effetto desiderato nel prossimo futuro. La proposta di una NATO economica per le democrazie del mondo servirebbe almeno come complemento forte e necessario all’OMC, anche se non può sostituirla completamente.
L’alleanza sarebbe anche un complemento indispensabile alla proposta di formazione, da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati democratici, dell’Accordo globale e progressivo per il Partenariato trans-pacifico (CPTPP) e del Quadro economico indo-pacifico (IPEF), nonché del piano di Partenariato per le infrastrutture e gli investimenti globali (PGII) annunciato da Biden e da altri leader del G7 nel giugno 2022 per contrastare l’iniziativa Belt and Road della Cina.
Negli ultimi anni, soprattutto dopo lo scoppio della pandemia COVID-19, il mondo democratico è diventato sempre più consapevole dei danni e della potenziale minaccia rappresentata dall’eccessiva dipendenza dalla Cina nella catena di approvvigionamento globale e ha avviato un accordo strategico per ristrutturare la catena di approvvigionamento globale nell’ambito di meccanismi multilaterali come il G7 e di meccanismi commerciali bilaterali tra Paesi. L’obiettivo è lungi dall’essere raggiunto, poiché la Cina ha ancora una significativa capacità produttiva e commerciale da sfruttare contro qualsiasi Paese, compresi gli Stati Uniti. Una “NATO” basata su valori e ben funzionante produrrebbe naturalmente la forza istituzionale che spingerà il mondo democratico a riorganizzare le catene di approvvigionamento globali per sottrarle alla morsa della Cina.
Per i Paesi dell’Asia orientale è da tempo vero che la loro sicurezza dipende dagli Stati Uniti e le loro economie dalla Cina. Questo è diventato il caso anche per i Paesi dell’America Latina, come discusso in precedenza in questo articolo. Negli ultimi due decenni, la maggior parte delle nazioni dell’Asia orientale ha lottato per destreggiarsi tra queste due superpotenze. È il caso dei 10 Stati membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), così come del Giappone e della Corea del Sud, che storicamente hanno stretto alleanze militari con gli Stati Uniti. Singapore è anche uno dei principali sostenitori di una relazione diplomatica equilibrata tra Cina e Stati Uniti. Ma nelle sue osservazioni in occasione di un incontro con il presidente Biden nel maggio 2022, il presidente sudcoreano Yoon Seok-yeol ha descritto la partnership tra Stati Uniti e Corea del Sud come un'”alleanza di sicurezza economica [e] tecnologica”, sottolineando che “l’economia è sicurezza e la sicurezza è economia”. Questo ha segnato l’inizio di una nuova relazione sinergica tra i due Paesi.
È il momento di iniziare a costruire la NATO economica, meglio tardi che mai. La guerra russo-ucraina ha portato l’impegno democratico a un nuovo livello in tutto il mondo e si avverte la necessità di rafforzare i valori democratici e la solidarietà in diversi ambiti e a diversi livelli. Soprattutto, dopo il 20° Congresso nazionale del PCC, che ha elevato Xi Jinping da sovrano a imperatore de facto, non ci possono essere dubbi sulla natura del regime del PCC con Xi al centro, né su ciò che il regime vuole, perché ha ripetutamente dichiarato e fatto sforzi notevoli per raggiungere gli stessi obiettivi per decenni: mantenere il PCC al potere, riassorbire Taiwan, controllare il Mar Cinese Orientale e il Mar Cinese Meridionale, riscrivere le regole internazionali e rendere la Cina il Paese più potente del mondo. Come ha giustamente osservato l’amministrazione Biden, la Cina è “l’unico concorrente con l’intento di rimodellare l’ordine internazionale e, sempre più, con il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per portare avanti questo obiettivo”.
La Cina sta affrontando un contraccolpo internazionale. La percezione negativa della Cina nel mondo è salita ai livelli più alti dal massacro di Piazza Tienanmen del 1989. Un sondaggio del Pew Research Center del 2021 ha rilevato che circa tre quarti delle persone negli Stati Uniti, in Europa e in Asia hanno una visione negativa della Cina e non hanno fiducia che Xi Jinping agisca in modo responsabile negli affari mondiali o rispetti i diritti umani. Un altro sondaggio, condotto dal Center for Strategic and International Studies (CSIS) nel 2020, ha rilevato che circa il 75% delle élite di politica estera in questi luoghi ritiene che il modo migliore per affrontare la Cina sia quello di formare una coalizione di Paesi che la pensano allo stesso modo per contrastarla. Negli Stati Uniti, entrambi i partiti politici sostengono ora una politica dura nei confronti della Cina. L’Unione Europea ha ufficialmente dichiarato la Cina un “concorrente sistemico”. In Asia, Pechino deve affrontare governi apertamente ostili in ogni direzione, dal Giappone all’Australia, dal Vietnam all’India. Anche i cittadini dei Paesi con cui la Cina intrattiene intensi scambi commerciali si sono rivoltati contro di lei. I sondaggi mostrano, ad esempio, che i sudcoreani sono ora più disgustati dalla Cina che dal Giappone, loro ex dominatore coloniale.
Il rapporto State of Southeast Asia Survey di quest’anno (pubblicato dall’ISEAS-Yusof Ishak Institute di Singapore) mostra che il 63% degli intervistati vede con favore l’influenza regionale, politica e strategica degli Stati Uniti e il 52% crede che gli Stati Uniti faranno la cosa giusta e contribuiranno alla pace, alla sicurezza, alla prosperità e alla governance globali. Solo il 19 percento la pensa allo stesso modo sulla Cina. Tra gli intervistati del Sud-est asiatico, gli Stati Uniti sono la seconda potenza di cui ci si fida di più, dopo il Giappone. L’Unione Europea è al terzo posto. Tutti fanno parte del mondo democratico. Come nei sondaggi precedenti, la Cina rimane la potenza meno fidata, con il 58% che afferma di non fidarsi di Pechino. Il sentimento anticinese sta iniziando a coagularsi in una reazione concreta. Questa opposizione è ancora nascente e frammentata, soprattutto perché molti Paesi dipendono ancora dalla Cina per gli scambi commerciali. Ma la tendenza generale della domanda aggregata nel mondo democratico è chiara e la “NATO” economica basata sui valori dovrebbe nascere.
Il mondo ha raggiunto un altro importante punto di svolta e il nostro futuro dipende in larga misura dal modo in cui le democrazie di tutto il mondo combatteranno e vinceranno la nuova guerra fredda, invertendo così completamente la tendenza globale all’arretramento democratico. Conservando e difendendo i valori democratici e proteggendo al contempo gli interessi economici delle democrazie, la “NATO” economica sarebbe determinante per aiutare il mondo democratico a ritrovare la sua vitalità.
Traduzione in italiano a cura di Federica Donati
It is time for a value-based economic “NATO”
Jianli Yang, a Tiananmen Massacre survivor and a former political prisoner of China , is founder and president of Citizen Power Initiatives for China and the author of For Us, the Living: A Journey to Shine the Light on Truth.
Introduction
The past two decades have witnessed a severe “democratic drought” worldwide. Not only have established democracies struggled to ensure the healthy functioning of democratic processes and institutions at home, but democracy is also losing its appeal to authoritarian and semi-authoritarian states abroad. According to a new report by the U.S.-based nonprofit Freedom House, every year for the past 17 years, significantly more countries have experienced declines in political rights and civil liberties than have experienced gains. Since 2015, this ominous trend has taken a sharp turn for the worse: 2015–19 was the first five-year period—since the start of the third wave of democracy in 1974—in which more countries abandoned democracy (twelve) than transitioned to it (seven). In 2022, 35 countries lost ground in political rights and civil liberties, while 34 countries improved, marking an overall deterioration in global freedoms.
Today, democracy remains in retreat around the world, although Ukraine’s resistance to Russian aggression shows its resilience. It is imperative to create a new wave of democratization to reverse the overall international decline.
One of the major causes of the global democratic decline is China. Over the past three decades, China has achieved rapid economic growth under a largely stable one-party communist regime, becoming the world’s second largest economy and rapidly closing the gap with the United States in the fields of science, technology, and national defense. China has greatly expanded its influence on the international stage, offering the world’s authoritarian states an appealing alternative to the notion that the only path to modernity is liberal democracy. The dominant international order of the post-World War II era is being challenged as never before. According to several recent surveys, the majority of African and Middle Eastern countries favor China’s role in the world. In recent years, China’s influence has not only influenced and controlled less developed countries and regions through projects such as the Belt and Road Initiative, but has also penetrated democracies, adversely affecting democratic ways of life and exerting increasingly obvious manipulation of international organizations such as the United Nations.
On December 9–10, 2021, U.S. President Joe Biden hosted the first of two Summits for Democracy, bringing together leaders from government, civil society, and the private sector to set a forward-looking agenda for democratic renewal and to take collective action to address the greatest threats facing democracies today. President Biden rightly recognized that the future fate of the world depends on the outcome of the struggle between democracy and tyranny, saying “Democracy doesn’t happen by accident, we have to defend it, fight for it, strengthen it, renew it.” Although this is an important step, the leaders of the democratic countries and the leaders of civil society represented at the summit failed to propose a concrete and feasible program of collective action.
By now, the need for principled solidarity should be obvious. Standing alone, even the United States has great difficulty preventing the Chinese Communist Party—the one-party totalitarian regime of the People’s Republic of China (PRC)—from undermining our democratic values. Dependence on the PRC, combined with financial incentives, has the perverse effect of shifting everything—from domestic policymaking, to the behavior of private institutions like Disney or the NBA, to the tenor of discussions on American campuses—away from democratic principles.
Both major American political parties rightly recognize this as a problem, and there has been little partisan disagreement over, for example, targeted sanctions to address abuses Chinese Communist Party (CCP) abuses in Hong Kong, Xinjiang, and Tibet. Nor have prominent Democrats criticized the current administration’s aggressive responses to the national security threats posed by the success of PRC-based technology companies beholden to the CCP.
The problem is that individual democracies are still largely left to their own devices, at least formally, when it comes to economic warfare arising from fundamental value conflicts. Security alliances exist, but they were built to deal with military coercion, not economic coercion.
To address this problem, I propose a values-based economic NATO for the world’s democracies.
China has become increasing adept at levering economic power to bend democracies to its will
I have been involved in the human rights and democracy movement in China since before the Tiananmen Square massacre in 1989, and I have been fully engaged in this cause from my base in the United States ever since. Decades of experience in advocating and seeking international support for the advancement of human rights and democracy in China, both in the United States and in other democracies, do not lead me to naively believe that democracies will always be able to uphold their founding principles on the issue of human rights. Even for political leaders in the democratic world, there is often a wide gap between their professed values and the concrete practice of their foreign policy. If all or most of the world’s democracies were able to uphold their values, it would not be the case that the world’s leading human rights abusers, such as China, Russia, and Cuba, would not receive enough votes in the UN General Assembly to become members of the UN Human Rights Council, whose human rights record, both domestically and internationally, is clearly substandard, as stipulated in the UN resolution that created the Council. I have also found that while the reasons why democracies fail to stand up for their principles on human rights issues are complex, there is one reason that plays the most direct, practical, and pervasive role, and that reason is simple: “money talks.” China is using its new-found economic power to coerce, lure, and infiltrate democracies and international organizations, making it brutally difficult for the democratic world on human rights issues and other issues related to fundamental value conflicts with the democratic world, often forcing democracies to back down from their value positions. Although China has rarely used military coercion during the post-Cold War period, it has become increasingly adept at using non-military coercion, including diplomatic and economic power.
In 2010, the Oslo-based Nobel Peace Prize Committee awarded the Nobel Peace Prize to imprisoned Chinese dissident Liu Xiaobo. (I represented Liu Xiaobo’s family and colleagues at the Nobel Peace Prize ceremony that year.) Although the committee is only geographically-based in Oslo and the prize is independent of government decisions, Norway still paid a steep price for awarding the Peace Prize to an outspoken and internationally-celebrated Chinese dissident. The humiliated CCP cancelled exchange visits between the two countries, broke off trade negotiations, and jeopardized negotiations on bilateral free trade agreements. After China imposed sanctions on Norwegian salmon exports to China, Norway’s market share in China for fresh salmon, one of the country’s mainstay exports, fell from about 90 percent in 2010 to under 30 percent in the first half of 2013. Norwegian companies, especially state-owned and partially state-owned enterprises, had difficulty obtaining contracts and operating in China.
The sanctions continued after Xi Jinping took the power in 2012. Norway eventually relented. In May 2014, the Norwegian government publicly announced that Prime Minister Erna Solberg would not meet with the Dalai Lama. In December 2016, the foreign ministers of China and Norway met in Beijing and signed a joint declaration. “Relations have deteriorated,” the declaration said, “due to the Nobel Peace Prize award and events connected to the Prize. Norway “is fully conscious of the position and concerns of the Chinese side and has worked actively” to restore relations. Norway “fully respects China’s development path and social system” and is committed to the one-China policy. The statement adds that the Norwegian government “attaches high importance to China’s core interests and major concerns” and “will not support actions that undermine them.”
China halted ministerial meetings with British counterparts in May 2012, when Prime Minister David Cameron met with the Dalai Lama and declared that relations would not be restored until Britain “stops supporting anti-Chinese forces.” The snub prompted intense debate at the highest levels of the British government over the UK’s ties with China. At a private meeting attended by Cameron, then-Chancellor George Osborne notably told a group of ministers that Britain’s relationship with China was of such economic and geopolitical importance that British sensitivities about human rights could not be allowed to complicate matters. Osborne won the argument and led a five-day trade mission to China in October 2013, paving the way for Beijing to invest in Britain’s new generation of nuclear power plants and setting the stage for Prime Minister David Cameron’s visit to Beijing that December. Heeding Osborne’s advice, Cameron distanced Britain from the Dalai Lama during his trip to China. His visit, on which he was accompanied by 100 businesspeople, focused on fostering trade relations with China, the global economic powerhouse. The UK “correct[ed] the error” as Beijing urged, although many human rights groups were not be pleased with the new stance.
The UK is not alone. The Chinese government frequently threatens that meetings between its trading partners’ officials and the Dalai Lama will be met with hostility and ultimately damage trade relations with China. This has happened to numerous countries—most notably France and, more recently, Mongolia.
In recent years, China’s brutal persecution of the Uyghurs, a Muslim ethnic minority, has received widespread international attention. The United States and other democracies have publicly condemned the PRC for exploiting and committing genocide against the Uyghurs in Xinjiang. In December 2021, the U.S. passed the Uyghur Forced Labor Prevention Act, which targets the CCP’s oppression and genocide against the Uyghurs, and imposed trade sanctions on China. Yet all Muslim countries have caved to China for economic reasons and are afraid to stand up for their Muslim brothers and sisters in Xinjiang. Setting authoritarian states aside, Muslim-majority democracies such as Indonesia, Malaysia, and Bangladesh are also tight-lipped about the CCP’s atrocities.
As the above examples show, China’s pattern of using economic means to achieve its goals on issues involving value conflicts has continued from the Hu Jintao era to the Xi Jinping era. In fact, it has intensified under Xi.
The recent emergence of mutual support within the democratic world to counter China’s economic coercion in values-based conflicts is a step in the right direction
In recent years, several democracies have been economically suppressed by China for supporting democratic Taiwan or for calling for international investigations into the origins of the COVID pandemic. So far, none have succumbed. Below we analyze how they have responded, which is instructive for my proposed framework for the democratic world’s response to China’s economic retaliation over conflicting core values.
Case 1
In September 2017, Czech Senator Miloš Vystrčil (who has since been elected president of the Senate) visited Taiwan, where he declared in a speech: “I am Taiwanese.” This symbolic support of Taiwan by the Czech Republic angered Beijing. Earlier that year, after getting wind of possible visits to Taiwan by Czech lawmakers, China’s embassy in Prague sent a letter to the Czech president’s office threatening to retaliate against leading Czech companies if senior Czech officials went ahead with planned visits to Taiwan. The letter said companies such as automaker Škoda, consumer lender Home Credit Group and piano manufacturer Petrof would suffer if Czech lawmaker Jaroslav Kubera visited the self-ruled island as planned. Shortly after Vystrčil’s Taiwan trip, a Chinese buyer cancelled a 5.3 million Czech koruna (about $230,000) order from Petrof.
Prague was under immense pressure because the Czech Republic’s gross domestic product would fall by about one percent if all of the country’s exports to China were halted.
So far, however, Prague has resisted the pressure. Not only have the Czech government and people stood firm on principle, but some of the steps taken by Taiwan and the Czech Republic have played an important role in mitigating the economic damage. While Taiwan’s President Tsai Ing-wen has called on Taiwanese citizens to buy Czech pianos, the Czechs have also practiced self-help.
After the Chinese customer cancelled the purchase order with Petrof, Czech billionaire Karel Komárek stepped in and bought the rejected pianos. Czech entrepreneurs in Vystrčil’s delegation returned home with several deals signed with Taiwanese business partners, and Prague and Taipei are considering a direct flight agreement. Taiwanese companies in the Czech Republic—Foxconn consistently tops the rankings—have helped with technology transfer expertise and in creating local job creation.
Case 2
China and Australia signed a free trade agreement in 2015, cementing a strong historical trade relationship based on China’s demand for Australian iron ore for its industrial machinery. However, the relationship began to show signs of strain after Australia became one of the first countries to raise national security concerns about Huawei and introduced foreign interference laws specifically to address the threat posed by China. Bilateral trade relations reached a low point in 2020 when Australia called for an independent investigation into the origins of the COVID-19 pandemic, which China saw as a direct attack on its reputation—the latest in what the Chinese government has described as a “series of misguided actions” by Canberra. (Mounting evidence now lends credence to the once-taboo “lab leak” hypothesis—namely, that the pandemic was most likely caused by the leak of a genetically-modified coronavirus from the Wuhan Institute of Virology—with dire health, economic and social consequences around the world.)
In the months that followed, Chinese authorities suspended import licenses for major Australian beef producers, ordered some power plants and steel mills to stop buying Australian coal, and imposed punitive tariffs on barley and wine. Later, in March 2021, China announced that it would extend the 220 percent anti-dumping duty imposed on Australian wine for another five years.
Taiwanese President Tsai Ing-wen urged Taiwanese consumers to buy more Australian wine. Meanwhile, Canberra was actively looking for a way out. In 2022, it signed the India-Australia Economic Cooperation and Trade Agreement with India, in which the two countries mutually agreed to cut tariffs on goods by more than 85 percent to reduce their dependence on China.
Case 3
Taiwan’s economic and trade relations with China have become increasingly close over the past two to three decades, with Taiwan’s exports to China accounting for 43.8 percent of its exports by the end of 2020 and a trade surplus of more than $170 billion, making it easy for China to use this advantage against the democratic, self-governing Taiwan, which Beijing views as a renegade province.
In late February 2021, in the face of Taiwan’s growing alignment with the West (in terms of democratic values, its response to COVID-19, global supply chain issues, geopolitics, and more) and consequent rise in international status, Beijing sent a strong warning signal to Taipei by suddenly announcing the suspension of pineapple imports from Taiwan on the eve of China’s annual “Two Sessions.” (Six months later, the suspension was extended to Taiwanese sugar-apples.) News of China’s import ban on Taiwanese pineapples immediately sparked an outcry in Taiwanese society. In response, Taiwanese Foreign Minister Joseph Wu launched a “Freedom Pineapple” campaign on Twitter, urging the public to buy Taiwanese pineapples. President Tsai Ing-wen even personally visited the southern city of Kaohsiung to publicly support the farmers by eating pineapples in front of the cameras.
Various countries and regions friendly to Taiwan, including Japan, Australia and Hong Kong, increased their orders of pineapples from the island nation. In interviews, Japanese consumers remarked that they cannot bear to see China bully Taiwan, so they must support and cheer for Taiwan. Former Japanese Prime Minister Shinzo Abe endorsed Taiwanese pineapples on his personal Twitter account, sharing a photo of himself with five Taiwanese pineapples. Taiwanese President Tsai retweeted and replied in Japanese, saying, “If five isn’t enough, I’ll send you more!”
On August 2, 2022, then-Speaker of the U.S. House of Representatives Nancy Pelosi visited Taiwan, prompting a fierce response from mainland China. In addition to launching live-fire military drills around Taiwanese waters and airspace, Beijing also launched a series of economic sanctions against Taipei. Specifically, the Chinese government suspended the export of natural sand to Taiwan and the import of grapefruit, lemons, oranges, chilled scallops, and frozen mackerel from Taiwan. China also suspended importation from Taiwan of 2,066 products (including tea and honey) from more than 100 processed food companies.
Case 4
In May 2021, Lithuania—a small Baltic democracy with a population of less than three million—withdrew from a diplomatic forum of 17 countries from Eastern and Central Europe plus China (17+1) to promote Xi Jinping’s “One Belt, One Road” initiative, a multibillion-dollar infrastructure project. In July 2021, Lithuania announced that it had accepted Taiwan’s request to open a “Taiwan Representative Office” in Vilnius, the Lithuanian capital. Taiwan’s offices in countries without formal diplomatic relations are usually established under the name of “Taipei,” such as the Taipei Representative Office in the United Kingdom and the Taipei Economic and Cultural Representative Office in the United States.
Viewing these as provocative actions by Lithuania, Beijing recalled its ambassador from Vilnius in August 2021. (Lithuania responded in kind by recalling its ambassador from Beijing the following month.) About a year later, on the evening of August 12, 2022, the official website of China’s Ministry of Foreign Affairs stated that Agnė Vaiciukevičiūtė, Lithuania’s deputy minister of transport and communications, had visited Taiwan in violation of the CCP’s one-China principle and interfered in the PRC’s internal affairs. In response, China sanctioned him personally, suspended contact between the two countries’ respective ministries of transport and communications, and ended all exchanges and cooperation in bilateral road transportation. China stopped regular freight trains to Lithuania, making it almost impossible for many Lithuanian exporters to sell their goods in China. Despite its small size, Lithuania is surprisingly large in China’s considerations, partly because of its role as a transit route for trains carrying goods from China to Europe. China believes that Lithuania played a crucial role in the collapse of the Soviet Union, and the CCP has studied this history in hopes of preventing similar centrifugal forces at home. After Lithuania became the first Soviet republic to declare independence from Moscow in 1990, the breakaway republic was led by Vytautas Landsbergis, the grandfather of current Lithuanian Foreign Minister Gabrielius Landsbergis.
The disruption in the supply of Chinese-made glass, electronic components, and other items needed by Lithuanian manufacturers hit the Lithuanian economy even harder. About a dozen companies that had relied on Chinese goods received nearly identical letters from Chinese suppliers claiming that the power outage had made it difficult to fulfill orders. Lithuania’s laser industry, one of the country’s most sought-after industries, had 30 percent of its exports going to China and faced enormous pressure.
In November 2021, Lithuania withdrew from China’s “17+1” cooperation bloc with Central and Eastern Europe. Beijing’s sanctions against Lithuania also left a bitter taste in the mouths of the Baltic states of Estonia and Latvia. In August 2022, Estonia and Latvia announced their exit from the cooperation group, reducing it to “14+1.”
Since then, Taiwan has encouraged joint ventures between its semiconductor companies and Lithuanian laser companies. In addition, Lithuanian companies doing business with Taiwan can also apply for funding from the country. Taiwan announced the establishment of a $200 million Central and Eastern European Investment Fund (CEEIF) and $1 billion in financing to promote bilateral cooperation between Taiwanese and Lithuanian firms. So far, Taiwan has invested a lot of money and political capital to help Vilnius stay the course.
In February 2022, Lithuanian Foreign Minister Gabriel Landsbergis traveled to Canberra to open Vilnius’ first embassy in Australia. He met with Australian Foreign Minister Marius Payne, and they agreed to increase bilateral cooperation on the challenges posed by Chinese pressure on both countries.
The entire European Union (EU) has rallied behind Lithuania. French President Emmanuel Macron pledged to vigorously pursue countermeasures against China’s economic aggression toward member-states during his country’s EU presidency. On April 26, 2022, the EU approved 130 million euros (about $190 million) in financial assistance to address the “exceptional situation” caused by China’s discriminatory trade restrictions against Lithuania.
Proposal for a values-based economic “NATO”
It is not that the democratic world does not recognize the threat posed by China, and it is not that it does not recognize the importance of collective action by democracies. In this dilemma, as in the classic prisoner’s dilemma scenario, each individual’s rational choice (the choice to maximize self-interest after considering the overall environment and calculating the gains/losses and risks of various possible actions) produces a collectively irrational outcome, making the overall environment worse and ultimately making each actor a victim. In other words, individual rationality produces collective irrationality. After the Tiananmen Square massacre, the major democracies imposed collective economic sanctions on China, but after China adopted the “market for everything” strategy, one by one, starting with Japan, individual democracies—including the United States—faced the lure of China’s huge market. The rational decisions made by each of the individual democracies, starting with Japan, in the face of the lure of China’s huge market (if others enter the Chinese market and they enter the Chinese market, others will gain the most and they will gain the least, and if others do not enter the Chinese market and they enter the Chinese market, they will gain the most, so in both cases the rational choice is to enter the Chinese market) have gradually led the democracies to a collectively irrational outcome.
Eventually, the world’s democracies came to their senses and realized that China’s quest for economic development was not as simple or innocent as Beijing had pretended. By then, China had become a full-fledged totalitarian superpower with a strategic agenda of military, technological, and economic hegemony, even resorting to blatant theft of intellectual property (IP). It became clear that China posed (and continues to pose) the greatest threat to the international order of freedom and the rule of law, and even to our democratic way of life at home; but by then it was too late to get out of the situation. At a time when the world’s democratic leaders, including U.S. President Biden, are determined to unite in their efforts to counter the CCP’s predatory practices, the biggest problem we face is the entrenched dependence of virtually every country’s economy on China.
It would be naive to think that only smaller economies are impacted, as we mentioned above with the UK and Australia. Indeed, we must recognize that all countries are affected, including the United States and Germany, Europe’s largest economy. There are numerous examples of the U.S. and Germany compromising their core principles out of concern for economic losses in their relations with China, not to mention individuals and companies with interests at stake.
As mentioned above, the single largest problem for the democratic world is the overdependence of each country’s economy on China. By 2020, China had become the largest trading partner of the United States and one the top three trading partners for the vast majority of U.S. allies, including Germany, Japan, India, South Korea, Australia, New Zealand, Argentina, Brazil, the United Kingdom, Canada, South Korea, Taiwan, Mexico, and Chile, just to name a few. And smaller, more fragile democracies are still largely left to fend for themselves.
Undoubtedly, armed with economic leverage, China has become a potent anti-democratic force challenging the U.S.-led rules-based liberal international order. China has become increasingly adept at using its economic power to coerce democracies on value-based issues, especially human rights.
I assume we all want to find ways to address this dire situation insofar as possible. But the question remains: How much money is an individual, a company, or a country willing or able to lose by standing up to China’s brutal totalitarian regime? We must admit that it is probably too much to ask Norwegian fishermen, Canadian farmers, Czech and Lithuanian businessmen, or even American and German entrepreneurs to individually sacrifice their livelihoods on the altar of human rights. There is a limit. We must be idealistic but also realistic. But what is the solution? Conventional wisdom tells us that “divided we fall.” But the Chinese government excels at the strategy of divide and conquer. The world’s democracies must respond united and in unison.
As we have noted above, in response to values-based conflicts in recent years, Japan, Taiwan, Australia, the Czech Republic, Lithuania, and other countries, including the EU, have come together in mutual support to counter China’s economic coercion. This points us in the right direction.
But how long can such beneficial and effective acts of mutual assistance last? Will these democracies (including the EU) be able to maintain their strong values and mutual support as the geopolitical landscape changes (e.g., as China adopts an increasingly divisive strategy) and interest structures evolve? The historical record in this regard is troubling, to say the least. The United States itself has a long history of loudly advocating for democracy in principle while compromising on democracy in practice. In the long run, this habit will undermine, rather than advance, the future of global democracy.
That is why the world’s democracies need to establish a rules-based standard for mutual assistance based on shared values, rather than relying on the unilateral discretion of individual states. In 2004, macroeconomists Edward Prescott and Finn Kydland won the Nobel Prize in Economics for their work on the concept of “time inconsistency,” in which they introduced an important conclusion: Rules are better than discretion because parties are bound not to change their policies, even if doing so might benefit them. If each party has the discretion to change its policy, a time inconsistency problem arises, and credibility and commitment become difficult to establish.
In the aftermath of World War II, which precipitated a long-lasting ideological, political, and military rivalry between the United States and the USSR (the world’s two superpowers at the time), the North Atlantic Treaty Organization (NATO) was established, bringing together allies in Western Europe and North America with a pledge to defend each other militarily in the event of a Soviet attack. This alliance has endured (growing from 12 founding member-states to 30 today) and still maintains its founding principle of collective security, meaning that an attack on one is considered an attack on all. The importance of NATO and its special functions has become even more apparent since Putin’s invasion of Ukraine in February 2022.
The values-based economic treaty organization of democracies that I propose would aim to engage in both collective defense and collective offense on values-related issues. If we apply the NATO principle of mutual military defense to the economic sphere, then whenever China uses economic coercion to bully a member-state on human rights issues, for example, others should automatically and immediately respond by increasing trade with the bullied member. This will help break the collective action dilemma in which all democracies have been trapped. This is very important for everyone, especially smaller countries. Under my proposed treaty organization, if an non-democratic country retaliates economically against a member-state for standing up for democratic principles, then all other treaty members must proactively come to its defense to help alleviate the resulting economic pain.
Economic security is the most important pillar of democracy. I believe that the NATO concept can be expanded to include all democracies in order to ensure their economic vitality and fend off China’s economic coercion, while offering developing countries a better option and a brighter economic future without the need for military action. Therefore, I propose a values-based economic version of NATO.
How a values-based economic “NATO” should work
The values-based economic treaty organization that I propose would be a global coalition of the world’s democracies (as well as other countries, territories, and partners with shared universal values) to defend against economic attacks, including the coercive use of economic and financial instruments, by authoritarian regimes seeking to undermine democracy and the democratic way of life.
The criteria for membership would include (1) having a democratically elected government, and (2) being a signatory to the Universal Declaration of Human Rights (UDHR) and the International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR), with national laws enacted to implement the rights enshrined in these two documents. In addition, each signatory country must enact a Human Rights Act that links human rights to all aspects of diplomatic relations with dictatorships, including regular assessments and executive reports to parliament or congress.
Under my proposed values-based economic “NATO” alliance, an economic attack by a totalitarian regime (including monetary sabotage or the imposition of unfounded sanctions or embargoes for coercive purposes, such as punishment or retaliation for criticism) that seeks to destabilize one or more member states of the alliance will be considered an attack against them all.
Again, the primary goal of the proposed values-based economic “NATO” would be to ensure the economic security of all member states through collective action. Collective economic security can be achieved through measures such as absorbing goods and services left in limbo by financial sanctions or tariffs imposed by autocratic regimes, and providing funds to compensate the industries and workers of affected member states.
The alliance should have an “Economic NATO Council” responsible for formulating broad strategies and policies as well as coordinating and implementing actions to strengthen the economic power of democratic countries.
A values-based economic “NATO” alliance would include various requirements and rights for signatory members, including the following:
- Signatory nations would be required to purchase “crisis insurance,” effectively creating a community assistance fund. All member states would contribute to the fund, which would be used to assist countries and partners that come under economic attack by any totalitarian regime, thereby avoiding or mitigating the adverse effects of economic coercion or warfare.
- Signatory nations would be obligated to use their markets to help other members, while preventing autocratic regimes from exploiting the free trade system of democratic countries to increase their collective strength.
- Signatory nations may bring any matter affecting their economic security before the Council for discussion, or may request the Council to invoke collective economic action to counter economic attacks by autocratic regimes, and the Council shall act by majority vote.
- Signatory nations should jointly confront human rights violating countries on human rights issues on various global platforms and formulate joint punitive measures for individual cases of human rights violations. Such measures could include imposing economic sanctions, boycotting cultural events, etc.
The alliance should identify and take steps to mitigate economic and financial vulnerabilities to totalitarian attacks or aggression. For example, the alliance should formulate and implement policies to eliminate economic dependence on autocratic regimes throughout the value chain, focusing on the creation of a secure global supply chain that can sustain economic warfare or attacks by totalitarian regimes.
The alliance must tighten control over the community’s resources and prevent totalitarian regimes from obtaining capital, high-tech talent, and critical technologies, while simultaneously bridging the global digital divide to expand e-commerce by providing a free and open Internet. The alliance should have comprehensive strategies for investing in demand-driven and cost-effective infrastructure development for its members to ensure long-term economic security.
Conclusion
There is no denying that the world has entered a new Cold War. Indeed, both U.S. President Joe Biden and Chinese General Secretary Xi Jinping have acknowledged this fact, although both have avoided the term “Cold War.” Increasing geopolitical divisions in the wake of Russia’s deadly invasion of Ukraine have brought the new Cold War into sharper focus. It is a Cold War because the conflict of values has become the root of enduring military, economic, and diplomatic conflicts. Without a conflict of fundamental values, all other conflicts would be easy to resolve in an international order based on freedom and the rule of law. For the democratic world, the question is not whether to acknowledge this new Cold War (or whatever we call it), but how to fight and win. The values-based economic “NATO” that I propose is the most fundamental and effective structural response to the grave challenge to world democracy posed by China and other dictatorships.
The proposed values-based economic “NATO” would not be a military organization like NATO, nor would it be a U.S.-led security organization like the Quadrilateral Security Dialogue (QUAD) or AUKUS. While the new Cold War will certainly not manifest itself in military conflict for the most part, strong military alliances of democracies against China are justified. While democratic countries are taking collective measures to counter China’s aggressions and threats, a new wave of democracy has yet to arrive. The reason boils down to “it’s the economy, stupid,” to quote James Carville. China’s recent policy-driven double-digit growth rate and $404 billion annual trade surplus with the U.S. alone have shifted the balance of power, while it has weaponized its economy through programs such as the Belt and Road Initiative to lure developing countries and sanction its democratic critics. Today, value conflicts enabled by economic power are becoming more common and fundamental, so the values-based economic “NATO” measures would serve as the foundation for these military and security arrangements.
The values-based economic “NATO” would not be an international organization like the World Trade Organization (WTO), which promotes global trade and arbitrates trade disputes. The WTO was unsuccessfully used as leverage to promote human rights in China during the debate over whether and how to admit China more than 20 years ago. The values-based economic “NATO”—which would in a sense make up for what was missing back then—would be a values-based economic organization that not only can help promote China’s human rights progress, but also can coordinate its powerful economic forces to respond collectively and effectively when member-states come into economic conflict with China over promoting China’s human rights progress, defending their democratic values, or defending a rules-based liberal international order.
Indeed, it turns out that the WTO is not the best institution to resolve trade disputes when they arise from value conflicts. For example, in December 2020, Australia filed a complaint with the WTO over China’s tariffs on barley and wine. The WTO established panels in May and October 2021 to rule on the barley and wine disputes, respectively. Reports are usually issued after 18 months; any errors found must then be corrected within a “reasonable” timeframe (usually at least 15 months). This means that it can take years to resolve a case. As another example, in December 2021, German auto parts giant Continental was pressured by China to stop using parts made in Lithuania. The Federation of German Industries was more sympathetic and supportive of the EU’s complaint filed with the WTO on behalf of Lithuania, but the EU’s complaint to the WTO did not allow the WTO to immediately open an investigation against China or impose any kind of sanctions on China. A WTO case takes a long time to resolve and first requires coordination between the two parties to the dispute, which usually yields no result when the dispute arises from a conflict of values. Moreover, the current WTO sanctions mechanism is often inactive, so the EU’s approach will not have the desired effect for the foreseeable future. The proposed values-based economic NATO for the world’s democracies would at least serve as a strong and necessary complement to the WTO, even if it cannot fully replace it.
The alliance would also serve as an indispensable complement to the proposed formation by the United States and its democratic allies of the Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP) and the Indo-Pacific Economic Framework (IPEF), as well as the Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII) plan announced by Biden and other G7 leaders in June 2022 to counter China’s Belt and Road Initiative.
In recent years, especially after the outbreak of the COVID-19 pandemic, the democratic world has become increasingly aware of the damage and potential threat posed by over-reliance on China in the global supply chain, and has begun a strategic arrangement to restructure the global supply chain in multilateral mechanisms such as the G7 and bilateral trade mechanisms between countries. The goal is far from being achieved, as China still has significant manufacturing and trade capacity to leverage against any country, including the United States. A well-functioning values-based “NATO” would naturally produce the institutional force that will push the democratic world to reorganize global supply chains away from China’s stranglehold.
It has long been true for East Asian countries that their security depends on the United States and their economies depend on China. This has also become the case for Latin American countries, as discussed earlier in this article. Over the past two decades, most East Asian nations have struggled to maneuver between these two superpowers. This is true of the 10 member states of the Association of Southeast Asian Nations (ASEAN), as well as Japan and South Korea, which have historically had close military alliances with the United States. Singapore is also a leading advocate of a balanced diplomatic relationship between China and the United States. But in his remarks at a meeting with President Biden in May 2022, South Korean President Yoon Seok-yeol described the U.S.–South Korean partnership as an “economic security [and] technology alliance,” emphasizing that “the economy is security, and security is the economy.” This marked the beginning of a new synergistic relationship between the two countries.
Now is the time to start building the values-based economic NATO, better late than never. The Russian-Ukrainian war has brought democratic commitment to a new level worldwide, and the need to strengthen democratic values and solidarity in different areas and at different levels is being felt. More importantly, after the CCP’s 20th National Congress, which elevated Xi Jinping from ruler to de facto emperor, there can be no doubt about the nature of the CCP regime with Xi at its core, nor any doubt about what the regime wants, because it has repeatedly declared and made remarkable efforts to achieve the same goals for decades: to keep the CCP in power, to reabsorb Taiwan, to control the East China and South China Seas, to rewrite international rules, and to make China the most powerful country in the world. As the Biden administration rightly noted, China is the “only competitor with both the intent to reshape the international order and, increasingly, the economic, diplomatic, military, and technological power to advance that objective.”
China is facing an international backlash. Negative perceptions of China around the world have risen to their highest levels since the 1989 Tiananmen Square massacre. A 2021 Pew Research Center survey found that about three-quarters of people in the United States, Europe and Asia have a negative view of China and lack confidence that Xi Jinping will act responsibly in world affairs or respect human rights. Another survey, conducted by the Center for Strategic and International Studies (CSIS) in 2020, found that about 75 percent of foreign policy elites in these places believe that the best way to deal with China is to form a coalition of like-minded countries to oppose it. In the United States, both political parties now support a hardline policy toward China. The European Union has officially declared China a “systemic competitor.” In Asia, Beijing faces openly hostile governments in every direction, from Japan to Australia to Vietnam to India. Even people in countries with which China trades heavily have turned against it. Polls show, for example, that South Koreans are now more disgusted with China than with their former colonial ruler, Japan.
This year’s State of Southeast Asia Survey Report (published by Singapore’s ISEAS–Yusof Ishak Institute) shows that 63 percent of respondents welcome U.S. regional, political and strategic influence, and 52 percent believe the United States will do the right thing and contribute to global peace, security, prosperity and governance. Only 19 percent feel the same way about China. Among respondents in Southeast Asia, the United States is the second most trusted power, after Japan. The European Union ranks third. All are part of the democratic world. As in previous surveys, China remains the least trusted power, with 58 percent saying they do not trust Beijing. Anti-Chinese sentiment is beginning to coalesce into a concrete backlash. This opposition is still nascent and fragmented, largely because many countries are still dependent on China for trade. But the general trend of aggregate demand in the democratic world is clear, and the values-based economic “NATO” should come into being.
The world has now reached another major turning point, and our future hinges depends to a large extent on whether how democracies around the globe will fight and win the new Cold War, thereby fully reversing the global trend of democratic retreat. By preserving and defending democratic values while protecting the economic interests of democracies, the values-based economic “NATO” would be instrumental in helping the democratic world to regain its vitality.