di Mu Sochua*
La Cambogia è stata descritta come la “terra delle vedove”. Decenni di guerra e di oppressione politica, in cui gli uomini sono stati uccisi o incarcerati, hanno lasciato a molte donne l’unica scelta possibile, quella di essere il capofamiglia.
Io sono una delle più fortunate. Mio marito è morto per cause naturali. Ma il dolore di essere vedova diventa molto più forte ora che vivo in esilio e non posso visitare l’ultima dimora di mio marito. Vivere in esilio è come quando portano via i tuoi cari nel modo più ingiusto. Non si tratta di una scelta, ma di un’imposizione. Proprio come accade a molte vedove cambogiane.
Ricordo di aver ricevuto una telefonata quel fatidico giorno, era quasi notte. Qualcuno mi avvertì che sarei stata arrestata. Il nostro partito, il Cambodia National Rescue Party (CNRP), era stato messo fuorilegge appena un mese prima e il nostro leader, Kem Sokha, era già stato prelevato dalla sua casa da circa 200 agenti di polizia. Ho temuto per la mia vita. Sapevo di non essere più al sicuro, così ho fatto le valigie e sono fuggita.
Sono passati sei anni da quel giorno, ma sento ancora la paura e il dolore. Non ho avuto il tempo di dire addio alle mie figlie e ai miei cari. Non sapevo dove andare. La Cambogia è la mia casa e fuggire non è mai stato nei miei programmi. L’incertezza di non sapere dove ti sveglierai il giorno dopo, in quale stanza, in quale letto dormirai, crea un disagio mentale, fisico ed emotivo. La mia famiglia non aveva idea di mi sarei trovata il giorno dopo perché dovevo muovermi velocemente. Il regime aveva occhi ovunque. Le autorità cambogiane mi avevano inserito nella lista nera e anche quando ho cercato di fare ritorno a casa nel 2019 sono stata respinta dall’immigrazione thailandese. Finora, dopo tre tentativi, non sono riuscita a tornare.
Una delle cose peggiori della lontananza da casa è non poter visitare il mio compianto marito. Ho portato le sue ceneri in Cambogia nel 2016 per onorare il suo desiderio di disperderle nel fiume dove si trova la nostra casa di famiglia. Ha insegnato ai bambini i valori del rispetto, della pazienza e della compassione – era il centro della famiglia e ci ha uniti tutti. Mi ha sostenuto in tutto. Quando mi avvicino ad un corso d’acqua, mi manca la nostra casa. Mi manca la famiglia. Mi manca essere in campagna elettorale con lui. Mi mancano i fiumi, le montagne, i campi di riso. E proprio come me, molte donne cambogiane hanno ancora nostalgia dei loro cari.
Durante il periodo dei Khmer Rossi, le donne sono state sottoposte a lavori forzati, violenze sessuali e altre forme di abuso. All’epoca le donne rappresentavano il 60% della popolazione e un terzo di loro erano vedove. Sono state costrette a diventare i capifamiglia. Oggi, 44 anni dopo, le nostre donne stanno ancora vivendo la stessa esperienza.
Proprio l’anno scorso, più di 100 attivisti e politici del partito di opposizione, molti dei quali maschi, sono stati accusati di presunto tradimento o incitamento contro il partito al potere in Cambogia. Il loro arresto di massa ha lasciato le loro mogli ancora una volta sole. Devono provvedere alle necessità basilari dei loro familiari, devono assicurarsi che i loro figli siano sani, ben nutriti, al sicuro. Si occupano della loro istruzione nella speranza di dare loro la miglior crescita sociale. Si occupano della casa, dalle pulizie, della spesa e della cucina. E dato che i padri non ci sono, il loro compito è anche quello di fornire sostegno emotivo e conforto in questi momenti di crisi. Nonostante tutto, queste donne continuano a protestare instancabilmente nelle strade per chiedere il rilascio dei loro mariti. Conosciute come “le Donne del Venerdì della Cambogia”, mogli e madri senza armi, munite solo di cartelli e magliette raffiguranti i volti dei loro mariti, picchettano i tribunali e le ambasciate, rischiando di essere arrestate o pestate. Mettono in gioco le loro vite e i loro corpi.
Con l’avvicinarsi delle elezioni, sembra che il loro movimento sia andato oltre la lotta per se stesse e per i loro mariti: si è spinto verso la giustizia per tutti. La loro voce è più politica: ora chiedono elezioni libere ed eque e il rilascio di tutti i prigionieri politici. Recentemente, durante il vertice dell’ASEAN in Cambogia, hanno organizzato la loro Marcia delle donne con cartelli che chiedevano democrazia e diritti umani in tutti i Paesi dell’ASEAN. “Friday Women” è l’immagine di tutta la forza delle donne, dal punto di vista politico, economico e morale. Se il movimento “Friday Women” crescerà potrà ispirare altre donne ad agire e a diventare leader nel proprio ambito.
Riconosco in loro quella stessa convinzione e dedizione che mi hanno indotto ad entrare in politica. La Cambogia era afflitta dalla povertà e piena di mine antiuomo. Phnom Penh era diventata meta di predatori sessuali che sfruttavano giovani donne e ragazze vulnerabili. Sapevo che le cose dovevano cambiare. Dovevo lottare per i diritti che erano stati tolti a queste donne. Oggi, come vicepresidente del CNRP, vado in giro per il mondo per raccontare la storia della Cambogia e cercare modi per riportare il nostro Paese sulla strada della democrazia. Mi sono battuta per i diritti umani, la libertà e lo Stato di Diritto, e so di non essere sola in questa lotta. Ci sono le mie sorelle in Cambogia impegnate nella stessa battaglia e stanno riuscendo a far sentire la loro voce. Attendo con ansia il giorno in cui potrò sostenerle nelle strade della Cambogia”.
Mentre sono qui nel mio luogo di esilio, i miei pensieri sono consumati dal desiderio di tornare a casa. È passato troppo tempo dall’ultima volta che ho visto i luoghi e i suoni familiari della mia patria. La Cambogia potrà essere sicura solo se i partiti di opposizione potranno operare liberamente senza il timore di essere nuovamente sciolti o perseguiti. Solo se gli elettori – il popolo – saranno liberi di esprimere le loro opinioni e di votare, se ci saranno media indipendenti e liberi e una Commissione Elettorale Nazionale indipendente. E se Hun Sen permetterà ai membri dell’opposizione in esilio di tornare a casa e facendo cadere tutte le accuse contro di loro.
Fino ad allora, continuerò a sostenere la democrazia, la libertà e lo Stato di Diritto in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo mi trovi. Lo devo a tutte le vedove e a tutte le donne rimaste in Cambogia. Lo devo al mio popolo.
*Mu Sochua è vicepresidente del Cambodia National Rescue Party, membro onorario del Comitato Globale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella e membro del Consiglio scientifico di The Global News. Attualmente vive in esilio negli Stati Uniti.