Comprendere le scelte della Germania e il suo orientamento di lungo periodo significa capirne la storia e la vocazione all’espansionismo sin dal 1806, quando finì il Sacro Romano Impero; significa mettere a fuoco i reali rapporti di forza, e quindi d’interesse, tra la Germania e gli altri membri della NATO, a cominciare dagli Stati Uniti, nonché quelli con attori statali quali Russia e Cina.
Il concetto di Westbindung (letteralmente «Legame con l’Occidente») rappresenta il perno del rapporto tra Germania e Stati Uniti d’America. È un fatto in sé, un elemento storico ed organico, con origini ben determinate.
Negli USA, i Deutschamerikaner, i cittadini che discendono da ceppi germanici, sono circa 45 milioni su oltre 300 milioni di abitanti. L’immigrazione tedesca negli Stati Uniti iniziò intorno alla metà del XIX secolo, allorché le comunità germaniche si stabilirono prevalentemente negli Stati del Midwest e presero a coltivare vaste superfici di terra libera. Pfizer, Boeing, Steinway, Levi Strauss, Heinz, sono multinazionali fondate da germano-americani.
Tornando all’Europa di oggi, va sottolineato come i progetti che ineriscono la difesa comune europea, che hanno segnato un’accelerazione con l’attuazione graduale delle proposte seguite alla dichiarazione congiunta NATO-UE, firmata a Varsavia nel luglio 2016, procedono e confermano che la NATO e l’Unione Europea sono diventate ormai complementari, proprio mentre Parigi nel 2023 rilancia il suo bisogno di equidistanza strategica tra Cina e USA.
Tuttavia, al netto dei desideri, Forze Armate e capacità militare sono uno strumento di politica estera (proiezione di potenza) e a questi Stati dell’UE, divisi un po’ su tutto e senza una politica estera comune, non serve un esercito comune bensì un maggiore investimento di risorse da destinare alla NATO, come sta facendo la Polonia.
Ma per quale ragione il futuro della Germania (e dell’Europa) dipende ancora e in larga misura dalla Westbindung, una tesi storica che potrebbe apparire superata?
Restando in epoca contemporanea, l’equidistanza tra Est e Ovest è la trappola in cui l’Urss e poi la Russia di Putin hanno cercato di attirare la Germania (all’epoca la Repubblica Federale Tedesca) sin dagli anni Cinquanta del XX secolo.
I tentativi spaziano dalla reiterata offerta di Stalin del 1952 di garantire la neutralità tedesca in cambio dell’unificazione, alla strategia di lungo periodo di Breznev di strumentalizzare la dipendenza energetica tedesca per legare Berlino agli interessi russi, fino allo sfruttamento psicologico, con la Guerra ibrida, delle paure tedesche su questioni come la difesa missilistica, l’immigrazione e, più recentemente, la questione ucraina.
In tutti questi casi, l’obiettivo di Mosca è stato ed è quello di promuovere una qualche azione di distanziamento della Germania dall’Occidente.
Ma il concetto di Westbindung, legato alla Westintegration (l’integrazione tra le nazioni democratiche europee), che fu elaborato da Konrad Adenauer e finalizzato ad integrare la Germania Ovest nel blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti, è ancora oggi l’unico modo per la Germania di riappacificarsi con la propria storia e con i concetti di potere e potenza.
Esso si può intendere come una «scelta di collocazione strategica», per rispondere a tutti quei problemi che derivavano dalla condizione
speciale della Germania di Paese sconfitto nel 1945, occupato e diviso, a sovranità limitata, collocato lungo la linea di separazione tra Oriente e Occidente.
La Westbindung, alla fine, è la precondizione della riconciliazione tra francesi e tedeschi e dell’integrazione nell’UE. Molti hanno creduto pure che, dopo la riunificazione tedesca, la Westbindung avrebbe avuto meno rilevanza, giacché l’equilibrio della Guerra Fredda volgeva al termine e il mondo sarebbe divenuto «più occidentale», libero a tutte le latitudini, secondo l’idea troppo ottimistica di Fukuyama. Ma non è stato così.
La Westbindung tedesca si fonda classicamente su sette pilastri: il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti; quello speciale e di non belligeranza con la Francia; l’adesione all’UE (gli organismi comunitari); l’appartenenza alla NATO, il multilateralismo, l’imprinting culturale “renano” intrecciato al Luteranesimo come ideologia del rispetto dello Stato e delle istituzioni; la proiezione di potenza verso l’esterno, che deriva dallo Standestaat e dall’organizzazione cetuale.
Prima dell’invasione dell’Ucraina, la NATO è stata ritenuta addirittura obsoleta, definita «cerebralmente morta» dal Presidente francese Macron, anche se l’alleanza continua a rappresentare il seccante promemoria che là fuori non ci sono solo mercati, clienti e flussi economici, ma anche guerre di sterminio di massa, minacce, terrorismo, violazioni dei diritti umani, trasformazioni tecnologiche e conflitti per l’energia.
La Germania non può rinunciare alla sua proiezione di potenza commerciale e geoeconomica, ma la sua politica estera e quella di difesa dovranno confermare: in primis, il rifiuto permanente della politica energetica della Russia, che pure non è mai stata elevata a rango di partner strategico; in secundis, il rifiuto della visione imperiale e distopica della Cina, a partire dalla sistematica violazione dei diritti umani condotta dal Partito Comunista.
La Westbindung ci fornisce un insegnamento che non è affatto morto: la Germania può imporre un modello di disciplina collettiva, ma esso non ha nulla a che vedere col paternalismo a trazione totalitaria della Cina.
La Germania fa affari, tesse rapporti commerciali, sigla intese economiche e continuerà a farlo, ma non mette a repentaglio il proprio principio di sicurezza, che non significa solo sicurezza militare ma prima di tutto sicurezza del proprio modello culturale e antropologico.
Se si leggono le linee guida denominate Policy guidelines for the Indo-Pacific region. Germany – Europe – Asia: shaping the 21st century together, un documento emanato dal Governo tedesco, si capisce come Berlino, più di Parigi, sia ben poco disposta a coinvolgere i cinesi in questioni altamente strategiche, e men che meno ad affidare a Pechino alcuna leadership, nemmeno nell’Indo-pacifico.
La Germania non ha bisogno di cambiare il proprio modello, ma solo di ristrutturarlo, giacché le sue basi sociali sono più solide e accettate culturalmente senza l’uso della coercizione.
Per un cultore delle scienze economiche tedesche come Karl Polanyi, l’economia non è una scienza fondata su leggi empiriche bensì è figlia della cultura della popolazione, della società, della religione e dei costumi.
Il federalismo sostanziale tedesco, che si è nutrito via via di Lutero, Hegel, List, Malthus, Weber, è l’ossatura che regge un sistema di mercato che – piaccia o meno –
funziona; lo dimostra la discussione circa i diritti in gioco nell’epoca del Covid-19, introdotta da un organismo dello Stato, il Deutsche Ethikrat, che, in un documento presentato durante la prima ondata pandemica, ha dato voce pubblicamente ad una pluralità di interventi e opinioni sulle misure da adottare, soprattutto in relazione agli effetti collaterali sulla vita economico-industriale e sulla tenuta psichiatrica dei cittadini. Un metodo molto diverso dall’approccio autoritario cinese al problema.
L’invasione dell’Ucraina, con tutto il suo carico di conseguenze, ha aperto gli occhi di colpo alla classe dirigente tedesca.
Il Cancelliere Scholz si pone oggi alcuni obiettivi di lunga durata: riarmare la Germania (non l’esercito europeo), garantire l’ordine pubblico interno, ristrutturare il sistema economico eliminando i fallimenti del mercato, limitare la penetrazione cinese nei settori strategici delle infrastrutture critiche, proteggere i centri nevralgici delle connessioni logistiche che servono a svolgere un ruolo strategico anche nel «Mediterraneo allargato», da Amburgo al “centro di ascolto” cinese a Gibuti passando per Trieste e il «Corridoio adriatico», da Tangeri ai Balcani, passando per l’East Med, dove nel quadrante si intersecano dossier riguardanti i flussi energetici e migratori, la questione turca, quella egiziana e i diritti sovrani di Cipro e Grecia sulle proprie Zee, la forza economico-finanziaria della criminalità organizzata transnazionale e il terrorismo.
L’East Med, inoltre, non vuol dire solo gas e pipeline, ma anche scenari di rotte commerciali che richiedono stabilità e incidono sulla sfida valutaria cinese alla supremazia del dollaro.
Per i tedeschi, la ricerca di uno spazio vitale (Lebensraum) e di un sistema mondiale incentrato su concetti come disciplina e stabilità non sono da intendere come mera conquista di sfere di influenza mercantili, ma come qualcosa di più ancestrale.
La terra delle antiche tribù germaniche che provenivano dal Nord è priva di confini naturali, ad eccezione delle Alpi. I pericoli, sin dalle epoche remote, provenivano da Ovest ma soprattutto da Est, e questa è diventata una sorta di ossessione che si è tradotta storicamente in una colonizzazione di tipo bellico, economico, anche demografico.
In fin dei conti, nella Storia tedesca non esiste neppure il concetto di confine, se non a livello normativo.
Nella sua antica proiezione di potenza, che in era moderna fu delineata politicamente da Bismark e da Guglielmo II, e sistematizzata geopoliticamente da Haushofer, la frontiera è un’incessante ricerca di quello che io chiamo principio di sicurezza come assillo, fatto di regole, rigore, certezza, efficienza, solerzia, che Haushofer tentò di innestare nella prospettiva tutta tedesca di controllare la terra per essere inattaccabili dal mare. Il confine per i tedeschi non è solo uno spazio vitale in termini espansionistici o imperiali, ma è in primo luogo un concetto culturale e spirituale. Haushofer riconobbe che se la Germania avesse potuto controllare l’Europa dell’Est e poi la Russia, avrebbe potuto mettere in sicurezza un’area strategica priva di un potere marittimo ostile.
La grandezza ed il limite dello Stato tedesco: trovarsi al centro del continente, una posizione geografica che incarna il rischio di una perenne guerra su più fronti.
Per concludere, oggi l’idea di una visione militare strategica soltanto franco-tedesca, o europea, è illusoria: gli europei non sono in grado di sostituire il ruolo indispensabile degli Stati Uniti quale attore che fornisce sicurezza, difesa, informazioni. Anzi, come hanno sottolineato le persone più influenti vicine alla Merkel dell’ultimo mandato, secondo la stessa Cancelliera c’era un lampante bisogno strategico di cooperazione transatlantica, che lo si guardasse da Berlino come da Washington, su tutti i dossier internazionali, da quelli economici a quelli che afferiscono la sicurezza globale.
La gestione della politica energetica tedesca e il rapporto d’affari di Berlino con le compagnie russe, restano comunque un vulnus agli occhi della comunità internazionale.
In un mondo caratterizzato dalla competizione per le risorse a tutti i livelli, l’Europa potrà resistere e difendere i propri interessi (anche i cosiddetti “interessi nazionali”) solo rimanendo unita, epperò registrando nuovi poteri e nuove capacità, di Stati come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, le Repubbliche Baltiche, e la nuova grande Ucraina che verrà.
Ma, sincronicamente, l’America dovrà mantenere l’Europa sotto il proprio ombrello nucleare «sia per scoraggiare» – come scrisse Vittorfranco Pisano, già consulente della Sottocommissione Sicurezza e Terrorismo del Senato americano – «aggressioni su grande scala, sia per respingerle contemporaneamente in due teatri di operazioni situati all’estero» rispetto a «rischi non convenzionali quali l’utilizzo delle armi di distruzione di massa (cioè, nucleari, biologiche e chimiche), la guerra informatica e il terrorismo».
La Germania, dal canto suo, confermerà la sua presenza all’interno del programma di condivisione nucleare della NATO e assegnerà maggiori risorse di bilancio e militari imprescindibili per rimanere un partner affidabile, in un’epoca in cui i principali teatri di conflitto sono e saranno, per l’appunto, la Guerra ibrida, informativa, chimica, biologica, radiologica, ma anche quella nucleare, con un’accentuazione delle dispute marittime per il controllo delle risorse marine (la marittimizzazione dei conflitti).
L’intelligenza geopolitica di Angela Merkel è stata quella di evitare lo scivolamento a Est della Germania (esemplificato a uso e consumo dell’opinione pubblica dal caso Navalny).
Merkel ha sviato la politica estera di Trump, ma anche i critici della NATO, in patria e fuori, insistenti nei loro sentimenti antioccidentali, pericolosamente neutralisti e troppo vicini alle posizioni di Putin.
La Germania non distruggerà il proprio mondo, di cui ha bisogno per prosperare e per difendere la propria proiezione di potenza. Ha bisogno di Stati stabili e ristrutturati intorno a sé, anche dell’Italia, con la sua economia integrata nel sistema tedesco e per la sua collocazione a geopolitiche plurime, dal continente ai corridoi mediterranei passando per i Balcani.
Berlino ha bisogno di sicurezza, che solo la NATO può darle, per difendere la Westbindung di Adenauer e tutto quello che di più profondo rappresenta.
Marco Rota*
*Analista di politica internazionale e consulente strategico