Anche la guerra civile che sta insanguinando Khartoum può essere considerata effetto di una sorta di maledizione dell’oro, come è stata definita dalla Bbc.
Nel 2011, dopo una lunghissima insurrezione che salvo brevi intervalli era durata in pratica dall’indipendenza del 1956, il Sud Sudan cristiano e animista divenne indipendente. Il residuo Sudan, a maggioranza araba e islamica, fu privato così di un export di petrolio che costituiva i due terzi delle entrate. Nel 2012, quasi a compensazione, nel nord del Paese fu trovato l’oro, in un’area chiamata Jebel Amir. Solo nel 2022, e secondo il governo, il Sudan ha realizzato esportazioni vicine ai 2,5 miliardi di dollari, corrispondenti alla vendita di 41,8 tonnellate di oro. Circa il 40% delle esportazioni del Paese.
Come già visto in altre famose corse all’oro del passato – dalla California al Klondike e dall’Australia al Sudafrica – decine di migliaia di giovani si riversarono prima in quella regione e poi in altre per tentare la fortuna in miniere poco profonde e con attrezzature rudimentali. E alcuni diventarono ricchi. Ma molti altri rimasero schiacciati in crolli. Nel 2021, ad esempio, 31 persone sono morte in una miniera in disuso nella provincia del Kordofan occidentale, e lo scorso 31 marzo altre 14 persone sono morte in un’altra miniera nel nord del paese.
Altre vittime le ha fatte l’abuso di mercurio e arsenico nel trattamento dell’oro.
Secondo la Sudan University of Science and Technology, nelle analisi effettuate nei bacini idrografici vicino alle aree minerarie nel 2020, sono stati rilevati livelli di concentrazione di mercurio di 2004 parti per milione (ppm) e arsenico di 14,23 ppm. Per la Oms, i livelli consentiti non dovrebbero oltrepassare 1 ppm per il mercurio e 10 ppm per l’arsenico nell’acqua. “L’uso di cianuro e mercurio porterà sicuramente a un disastro ambientale nel paese”, ha denunciato a una radio locale El Jeili Hamouda Saleh, professore di diritto ambientale alla Bahri University di Khartoum. Secondo i suoi dati, “nel Paese ci sono più di 40.000 siti di estrazione dell’oro. Circa 60 aziende di lavorazione dell’oro operano in 13 stati del Paese, 15 delle quali nel Kordofan meridionale. Non andrà a finire bene, perché non rispettano i requisiti ambientali”.
Ma, a parte ciò, in un Paese fortemente instabile sul business dell’oro si sono buttati anche gruppi armati: un po’ come si è visto sempre per l’ro ad esempio in Colombia, o per i diamanti in altri Paesi africani. Un signore della guerra che guadagnerebbe 54 milioni di dollari all’anno dall’estrazione e contrabbando di oro è ad esempio Musa Hilal. Già esponente di quella milizia dei Janjaweed: i “Satana a cavallo”, che al tempo del regime islamista di Omar Hasan Ahmad al-Bashir fu usato per reprimere la rivolta del Darfur con metodi genocidiari. Tra 2003 e 2020 furono 700.000 i morti e 2 milioni gli sfollati, su una popolazione di poco più di 9 milioni di persone. Appunto per impadronirsi di asset auriferi a Jebel Amir gli uomini di Musa Hilal fecero un’altra pulizia etnica da cui oltre 800 vittime. Il ruolo di Musa Hilal in altre pesante violazioni dei diritti umani per impadronirsi di oro anche nel Darfur fu denunciato nel dicembre 2015 dallo U.N. Security Council’s Panel of Experts on Sudan, ma il rapporto fu cassato dal veto della Russia (U.N. Panel of Experts).
E la cosa è indicativa. I Janjaweed sono infatti all’origini della Rapid Support Force (Rsf): la milizia che ha tentato un golpe a Karthoum proprio perché rifiuta di perdere la propria autonomia con un assorbimento nell’esercito, come previsto dalla tabella di marcia per il ritorno dal regime militare a un governo civile e alla democrazia. La Rsf, forte di 70.000 uomini e oltre 10.000 camioncini armati, ha infatti da tutelare una quantità di asset, tra cui a sua volta quello aurifero. E per estrarre l’oro si è associata con la Wagner in una joint venture che si chiama Meroe Gold (CNN): dal nome di un regno dell’antichità che si trovava proprio nel territorio dell’attuale Sudan, che fu a stretto contatto con la civiltà egizia e che fu a sua volta famoso per le proprie ricchezze aurifere.
La Cnn ha riportato che nelle miniere di questa joint venture sventola la bandiera della ex-Unione Sovietica, e che ci sarebbero stati almeno 16 volti per portare questo oro a Mosca, dove la Banca Centrale Russa lo ha trovato utilissimo per provare a fronteggiare le conseguenze delle sanzioni. Capo della Rsf è Mohamed Hamdan Dagalo “Hemedti”, che prese il posto di Hilalk nel 2017 dopo la sua consegna alle autorità internazionali, e che ora ha tentato appunto il golpe. Proprio il giorno prima dell’attacco all’Ucraina si trovava a Mosca, su invito del socio Prigozhin. “Il mondo intero deve riconoscere che la Russia ha il diritto di difendere la sua gente”, disse.
Maurizio Stefanini*
*Roma, 1961. Giornalista e saggista, moglie e due figli, specialista in America Latina