Val la pena sottolineare alcuni aspetti circa i rapporti tra Italia e Cina, che meriteranno una lunga disamina sotto il profilo politico, economico e giuridico, e che qui invece sono esposti a guisa di promemoria circa i principali dossier che il Governo italiano affronterà nelle prossime settimane. Con la locuzione Memorandum of Understanding, nel Diritto internazionale, si può intendere sia un trattato internazionale classicamente inteso (con conseguente applicazione di diritti e obblighi internazionali), sia un documento non vincolante (finalizzato ad esprimere per lo più una corrispondenza di interessi tra le parti).
L’Ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese in Italia, Jia Guide, in una recente intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore, ha sottolineato i dati sulle esportazioni italiane in Cina, suggerendo la necessità di incrementare il livello finanziario del business e l’area strategica degli affari, nonché il danno che deriverebbe dalla mancata espansione dei legami tra Roma e Pechino qualora il nostro Paese tornasse indietro dalla Belt and Road Initiative.
Il Memorandum d’intesa che sta alla base dell’adesione dell’Italia, per precisione “Memorandum d’intesa tra il Governo della Repubblica Italiana e il Governo della Repubblica Popolare Cinese sulla collaborazione nell’ambito della Via della Seta economica e dell’Iniziativa per una Via della Seta Marittima del 21° secolo”, potrebbe rinnovarsi automaticamente nel marzo 2024, salvo disdetta del Governo italiano, a patto che ciò avvenga entro la fine di quest’anno.
Nella parte introduttiva del documento si fa riferimento alla volontà delle parti di promuovere una collaborazione sul modello di un forte accordo bilaterale («based on the aspiration of furthering bilateral practical cooperation»), tipico dell’approccio cinese alle relazioni internazionali, che contrasta però con tutta una serie di richiami, dall’ONU al cambiamento climatico fino allo sviluppo sostenibile, ad un impegno diretto con le istituzioni comunitarie europee.
Questo Memorandum, infatti, a livello sovranazionale cita gli obiettivi che erano stati stabiliti dall’Agenda Strategica di Cooperazione UE-Cina 2020, e dai principi che ancora oggi guidano la Strategia UE per la Connettività tra Europa ed Asia adottata nell’ottobre 2018 («Reiterating their commitment to honor the purposes and principles of the UN Charter and to promote inclusive growth and sustainable development, in line with the 2030 Agenda for sustainable development and the Paris Accord on climate change; Recalling also the objectives set by the EU-China 2020 Strategic Agenda for Cooperation and the principles driving the EU Strategy for Connecting Europe and Asia adopted in October 2018»).
Agende e strategie che, dopo la pandemia, l’aggressione perpetrata contro l’Ucraina e la crescente assertività di Pechino, sono state ridimensionate e resteranno ancora a lungo sui tavoli delle trattative, a Bruxelles e nelle capitali europee, dove gli Stati nazionali procedono in ordine sparso, secondo la logica degli interessi nazionali.
Il mondo è cambiato vistosamente anche per l’Italia durante gli ultimi tre anni, riguardo a temi dirimenti quali: multilateralismo e accordi di libero scambio, sicurezza delle infrastrutture critiche (5G e fornitori “non affidabili”), difesa riarmo e incremento della produzione strategica (golden power, terre rare), transizione energetica, nel quadro delle nuove posture geopolitiche di tutte le grandi potenze del mondo.
Adolfo Urso, Ministro delle Imprese e del Made in Italy, in una recente intervista ha inquadrato la posizione del Governo rispetto al nuovo regolamento UE sulle materie prime strategiche, mettendo in conto opposizioni e resistenze e aggiungendo «che serve un’operazione di onestà: la transizione ecologica non è pranzo di gala ma una nuova rivoluzione industriale, per arrivare pronti al 2030 ci dobbiamo porre obiettivi sfidanti».
Ciò mentre nuovi e potenti contrasti vanno delineandosi anche dentro i singoli Governi nazionali (si veda il caso della Germania rispetto al suo settore automobilistico), dopo il rinvio dell’adozione delle norme sullo stop ai carburanti benzina e diesel dal 2035.
Va ricordato che il protocollo d’intesa tra Italia e Cina venne firmato nel 2019 dal Governo guidato da Giuseppe Conte con Luigi Di Maio all’epoca titolare del dicastero della Farnesina; e che l’Italia fu l’unico Stato membro del G-7 a aderirvi.
Da allora, il Governo italiano, in particolare durante il mandato del Presidente Mario Draghi a Palazzo Chigi, si è allontanato gradualmente dalla Via della Seta e più in generale dalla Cina, in considerazione del fatto che – se ci limitiamo a una considerazione meramente economica – si è registrato soprattutto un aumento delle esportazioni dalla Cina verso l’Italia, più che il contrario.
I diplomatici cinesi hanno reagito al raffreddamento dei rapporti tra Italia e Cina puntando ulteriormente sul valore di alcuni dati economici (nell’intervista, ad esempio l’Ambasciatore Jia ha evidenziato che l’export italiano in Cina «è cresciuto del 42% tra il 2019 e il 2021, superando di gran lunga i livelli precedenti la firma del Memorandum»).
Il volume complessivo degli scambi bilaterali ha toccato quasi i 78 miliardi di dollari nel 2022. Ma entriamo nel dettaglio per capire meglio il peso dei due firmatari del protocollo (chi ne trae maggior beneficio) e lo squilibrio della Bilancia commerciale.
I dati ufficiali indicano come le esportazioni cinesi verso l’Italia abbiano registrato un’impennata: dai 31,7 miliardi nel 2019 ai 57,5 nel 2022 (a farla da padrone sono i beni finali del settore elettronico); viceversa, le esportazioni italiane verso la Cina sono cresciute meno di quanto ci si aspettasse, passando dai 13 miliardi del 2019 ai soli 16,4 del 2022. In tal senso, l’Italia per la Cina era e resta un partner commerciale per nulla di primo piano: su scala globale, il nostro Paese in qualità di “cliente” di Pechino si piazza al 22° posto, mentre come fornitore che esporta i suoi beni finali si piazza al 24° posto. La Cina compra molto di più, ad esempio, da nazioni come Arabia Saudita, Francia, Russia, Germania (dati ICE).
In sintesi, la quota di mercato italiana nelle importazioni cinesi vale oggi lo 0,99%, a fronte del comunque modesto 1,08 dell’anno 2020. Sempre le importazioni cinesi dei nostri prodotti, registrano nel saldo della Bilancia commerciale un -11% a nostro svantaggio, nel passaggio temporale dal 2021 al 2022. Fin qui i numeri.
Sebbene il Governo Meloni non abbia ancora assunto una posizione ufficiale circa la BRI (Belt and Road Initiative), l’attuale Presidente del Consiglio durante la campagna elettorale del 2022 definì il Memorandum «un grosso errore», mentre circolano opinioni contrastanti a proposito di un suo possibile rinnovo.
Da un lato, infatti, vi sono crescenti pressioni di alcuni segmenti dell’industria italiana, finalizzate a lasciare che il Memorandum si rinnovi automaticamente, senza discussioni e dunque anche senza particolari frizioni, per mantenere rapporti solidi con un mercato giudicato significativo. Lo vedremo nelle conclusioni di questa analisi.
Produzione strategica e livelli di sicurezza fisica e digitale
Da un’altra angolazione, però, si osservano problemi concreti che investono nel loro insieme tutto il rapporto non facile tra Italia e Cina, che insiste su questioni di politica estera e su dossier economici, che si intersecano tra il livello locale e quello globale.
Le criticità riguardano la sicurezza, la geopolitica, i diritti umani, l’ambiente, le stesse controversie legali concernenti molti degli scambi tra gli operatori privati italiani e quelli cinesi, mentre le diverse leggi di Pechino sulla governance digitale incidono sempre di più sulla vita e sulle imprese, in Cina e all’estero (si pensi al tema del “Credito sociale” in Cina, arbitrario e connesso a reputazione e sorveglianza di massa).
Bisogna parlare in primis della sicurezza nazionale del nostro Paese e di quella internazionale di cui è parte (NATO), mentre Washington e Pechino, su sicurezza, integrità e autonomia dei dati, sono già in guerra da anni proiettando potere e interesse nazionale quali elementi già regolati attraverso dinamiche all’interno di reti.
Secondo Il Sole 24 ore, con una serie di Dpcm datati 31 marzo, il Governo Meloni avrebbe impartito ulteriori prescrizioni e raccomandazioni nel settore delle telecomunicazioni e posto vincoli ai piani di acquisto annuali di tecnologie 5G. Le misure riguarderebbero alcuni operatori delle torri di telecomunicazione e operatori di telefonia mobile. In sostanza, tali provvedimenti ricalcherebbero quelli imposti dal governo Draghi ai piani annuali di Tim e Vodafone per favorire la diversificazione dei fornitori e limitare la quantità di apparecchiature cinesi installate nelle infrastrutture italiane. Secondo il rapporto di Strand Consult, il 51% dei componenti della rete 5G italiana è cinese (Huawei e Zte).
Per poteri speciali (golden power) si intendono, tra gli altri, «la facoltà di dettare specifiche condizioni all’acquisizione di partecipazioni, di porre il veto all’adozione di determinate deliberazioni societarie e di opporsi all’acquisto di partecipazioni».
I Governi Draghi e Meloni hanno già esercitato questi poteri previsti dalla normativa in molte occasioni, mentre l’attenzione degli organi di Governo e del Parlamento (e del COPASIR) si concentra sulla produzione italiana di semiconduttori, sul destino di alcune raffinerie, sulla produzione dell’acciaio, sulle infrastrutture critiche nel settore marittimo e della logistica (è nota l’influenza cinese in alcuni ben precisi porti).
Negli Stati Uniti, verso la metà di aprile di quest’anno, 40 agenti della Polizia Nazionale Cinese sono stati accusati di aver pianificato una vera e propria repressione transnazionale contro alcuni cinesi residenti sul suolo americano.
Due denunce penali, presentate dall’Ufficio del Procuratore degli Stati Uniti per il Distretto orientale di New York sono state aperte presso il Tribunale federale di Brooklyn, accusano gli imputati di vari reati connessi allo sforzo della Polizia Nazionale della Repubblica Popolare Cinese (in sostanza il Ministero della Pubblica Sicurezza) finalizzati a perseguitare alcuni cittadini cinesi residenti nell’area metropolitana di New York e in altri Stati americani.
Secondo fonti di un noto centro studi americano, che riportano quanto detto dall’FBI, gli imputati, tra i quali 40 funzionari ministeriali cinesi e due funzionari della Cyberspace Administration of China (CAC), avrebbero sviluppato programmi e azioni contro persone cinesi sospettate di attività ostili al Governo di Pechino, in particolare in tema di democrazia e diritti umani.
L’Italia da anni è al centro di polemiche a causa delle “stazioni di polizia” cinesi, dislocate in Italia con una funzione che sembrerebbe, all’apparenza, utile. Infatti, queste strutture offrirebbero assistenza ai connazionali che vivono all’estero, per necessità legate a visti e passaporti, soprattutto quando i documenti da rinnovare servono a ritornare in patria.
Tuttavia, il Governo, nella persona del Ministro dell’Interno Piantedosi, ha affermato che investigazioni sono in corso, per verificare l’utilità di questi uffici sul piano sociale, burocratico e amministrativo.
Il quotidiano Il Foglio ha messo in luce, con inchieste a più riprese, il sospetto che queste “stazioni di polizia” potessero essere legate a un altro fatto tanto inquietante quanto curioso: i passati pattugliamenti congiunti tra le forze di polizia italiane e quelle cinesi; forme di collaborazione internazionale che, sempre a parere dell’attuale Ministro Piantedosi «non verranno più praticate, né replicate in altre forme. […] Chi volle introdurli (i pattugliamenti di polizia congiunta, n.d.r.), immaginò forse una convenienza nella collaborazione con le istituzioni di quel paese».
L’accordo tra Italia e Cina circa i pattugliamenti risale al 2015. Qualche volta le forze dell’ordine italiane andavano in Cina, qualche volta i poliziotti cinesi, sempre secondo Il Foglio, venivano in Italia, a Roma, Prato, Milano, Torino, Padova.
Mentre il Governo riflette sulla Via della Seta economica e sull’Iniziativa per una Via della Seta Marittima del 21° secolo, è ragionevole richiedere al Parlamento e allo stesso Governo uno sforzo di approfondimento ulteriore circa queste “stazioni di polizia” ubicate sul suolo italiano.
Così com’è altrettanto ragionevole chiedersi, sul piano politico, come all’epoca alcuni uomini di governo e alcuni funzionari amministrativi italiani abbiano ritenuto utile che le nostre forze dell’ordine potessero apprendere nozioni e regole d’ingaggio da poliziotti cinesi, impegnati in patria in una repressione quotidiana dei diritti umani dei propri concittadini, con strumenti e pratiche tipici di uno Stato totalitario. L’Italia è stato l’unico membro del G7 a aderire a una simile collaborazione, tra il 2015 e il 2019.
Come ha riportato Nova News, «la Cina ha aperto 102 “stazioni di polizia” illegali all’estero in 53 Stati nel mondo, ma in nessun Paese ve ne sono più che in Italia, ben undici».
In conclusione, esiste una similitudine tra quanto rilevato dall’Ufficio del Procuratore degli Stati Uniti per il Distretto orientale di New York (di fatto un’indagine di controspionaggio dell’FBI sulle “stazioni di polizia cinesi” su suolo americano) e ciò che accade in Italia? Molti aspetti di questa presenza sul suolo italiano non sono ancora stati chiariti.
Un altro problema venuto allo scoperto recentemente (ma non certo nuovo) è quello della cosiddetta «Banca clandestina» con filiali a Roma, Firenze, Padova, Prato, Napoli e Reggio Calabria. Un istituto di credito che – secondo il quotidiano La Repubblica – muove miliardi di euro verso la Cina e ha attirato la curiosità degli investigatori italiani, a cominciare da quelli della Guardia di Finanza.
La Relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza, redatta dal Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica per l’anno 2022, circa alcune attività di cittadini cinesi in Italia parla di «dinamismo affaristico-criminale».
Arianna Pacioni nel 2016 mise in luce che «la Cina è stata di recente identificata da un’investigazione condotta dall’Associated Press come nuovo hub globale per le attività di riciclaggio di denaro che coinvolgono organizzazioni criminali internazionali quali, fra le altre, quelle europee, colombiane e israeliane. Tali attività interessano spesso servizi import-export e money transfers, e mostrano dunque all’apparenza una gestione “privata”».
Investimenti e cooperazione possibili
Sempre prendendo in esame il Memorandum, in particolare l’ultimo capoverso del par. II, possiamo dire che resta improbabile l’opzione di instaurare dei veri “partenariati” tra le istituzioni finanziarie italiane e cinesi, data l’estrema opacità dei richiami normativi, quasi assenti nel testo, la quale impedisce non solo di attuare una concreta cooperazione in materia di investimenti e finanziamenti, a livello bilaterale e multilaterale nonché verso Paesi terzi, ma anche solo di programmare con quali strumenti essa dovrebbe procedere.
Risulta evidente soprattutto la sovrapposizione tra atti normativi dei singoli Stati (per sottoscrivere il Memorandum quale rapporto bilaterale) e strumenti giuridici comunitari (UE), a cui peraltro i primi si richiamano ovviamente a più riprese.
Ma quali sono i rischi concreti della penetrazione cinese in Occidente?
Sin dall’inizio, la strategia cinese dietro la Via della Seta quale strumento geopolitico (per unire Asia ed Europa), è stata focalizzata sullo sviluppo di vie di comunicazione e di infrastrutture, controllando direttamente le società che le gestiscono oppure concedendo prestiti agli Stati per la loro realizzazione o il loro ammodernamento.
Un rischio è di non avere più voce in capitolo lungo alcuni snodi strategici della supply chain, che si tratti di un porto, di una ferrovia o di un’autostrada, come già sta accadendo con gli interventi cinesi in Africa, nei Balcani, nel Caucaso, in Estremo Oriente e in Sud America.
Poi c’è il rischio per i Paesi “ospitanti” di perdere il controllo di società strategiche, in settori chiave che vanno dall’energia alle telecomunicazioni, dall’industria militare a quella chimico-farmaceutica, come abbiamo ricordato prima circa gli sforzi condotti dai governi Draghi e Meloni a proposito di produzione strategica e golden power.
Un’altra criticità, in ultimo, è rappresentata dall’eventuale incapacità di restituire i prestiti ricevuti, con la conseguente perdita della proprietà statale di infrastrutture strategiche in costruzione, già ultimate o in ristrutturazione.
Memorandum o meno, le imprese statali e i fondi sovrani cinesi continueranno a premere per acquisire potere dentro le società di controllo di infrastrutture critiche italiane ed europee, mentre sarà sempre più complicato ottenere progressi circa i negoziati UE-Cina in sede comunitaria, poiché non c’è per il momento una strategia unitaria dell’UE circa la scelta (politica e non tecnica) fra decoupling e de-risking.
Per evitare che la Cina continuasse a negoziare con i Paesi membri a livello bilaterale, alcuni governi avevano chiesto di riprendere la discussione sull’EU-China Investment Agreement, sospeso nel 2021, ma pochi giorni fa il Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha sostenuto in una conferenza stampa in presenza del presidente cinese Xi Jinping che «L’accordo globale sugli investimenti non è stato affrontato», sottolineando anche il peggioramento dell’accesso al mercato cinese per le aziende dell’UE.
Nel caso del Memorandum tra Italia e Cina, le parti, al momento della firma, avevano già chiarito come il documento «does not constitute an international agreement which may lead to rights and obligations under international law».
Il senso di questo documento si è rivelato essere sostanzialmente politico e geopolitico, un grimaldello per spingere Bruxelles ad accelerare le trattative verso la sottoscrizione di un accordo in grado di vincolare tutti gli Stati membri.
La posta in gioco va analizzata in termini globali, ed ha un valore incalcolabile.
La posta in gioco geopolitica
Negli ultimi anni, la Cina ha affermato di voler imporre un nuovo ordine globale, non più a guida americana e contro la stessa supremazia del dollaro, per promuovere un nuovo multilateralismo, non più fondato sull’ordine liberale.
Durante un evento organizzato dal Mercator Institute for China Studies e dallo European Policy Center, prima della partenza verso la Cina insieme al presidente francese Emmanuel Macron, il Presidente von der Leyen ha chiarito che l’UE non vuole chiudere la porta a Pechino, sottolineando però che è necessaria una strategia per «ridurre i rischi» e le dipendenze dalla Cina.
Due affermazioni sono significative.
Ella ha dichiarato: «Dobbiamo concentrarci sulla riduzione dei rischi, non sulla separazione. Per questo mi recherò presto a Pechino insieme a Macron, per gestire questa relazione e avere uno scambio franco e aperto con le nostre controparti cinesi».
Poi Von der Leyen ha affermato che «l’obiettivo chiaro del Partito comunista cinese è un cambiamento sistemico dell’ordine internazionale con la Cina al centro, dove i diritti individuali sono subordinati alla sovranità nazionale. Dove la sicurezza e l’economia prendono il sopravvento sui diritti politici e civili».
Come possa un semplice de-risking nell’approccio alla Cina coniugarsi con la constatazione che il Partito Comunista Cinese stia promuovendo su scala globale un sistema totalitario a sua immagine e somiglianza, non è dato di sapere.
Ma analizziamo anche altri passaggi del discorso del Presidente dell’UE.
Von der Leyen ha fatto capire che le relazioni fra UE e Cina dipenderanno in larga misura dalle posizioni di Pechino circa l’aggressione russa all’Ucraina e dall’assertività della Cina negli organismi multilaterali, evidenziando la volontà di modificare l’EU-China Investment Agreement prima menzionato, anche in relazione alla Via della Seta economica.
La Cina è un partner commerciale fondamentale, ha affermato von der Leyen, mettendo in guardia però che il rapporto economico tra Cina ed Europa sta diventando sempre più sbilanciato e che la «fusione esplicita dei settori militare e commerciale» da parte cinese pone adesso dei rischi per la sicurezza europea.
Come prima ricordato, l’entrata in vigore dell’EU-China Investment Agreement è stata bloccata nel 2021 dopo che Bruxelles ha sanzionato i funzionari cinesi per violazioni dei diritti umani e Pechino ha imposto contro-sanzioni ai legislatori dell’UE e ad altri funzionari. Francia e Germania speravano di rilanciare questo accordo, nonostante le parole di von der Leyen: «dobbiamo riconoscere che il mondo e la Cina sono cambiati negli ultimi tre anni e dobbiamo rivalutare l’Accordo sugli investimenti alla luce della nostra piú ampia strategia per la Cina».
La posta in gioco per Pechino è certamente di natura commerciale, come mostrano i dati sulle esportazioni di Pechino nel resto del mondo, ma rimane soprattutto politica e geopolitica: Xi Jinping si sforza di mantenere almeno uno Stato membro del G-7 all’interno della BRI, che è sì un sistema infrastrutturale ma, almeno per quanto concerne l’Italia, ha valore più che altro quale strumento di influenza e di soft power.
Al Governo e agli analisti cinesi non è sfuggita la solida posizione atlantica del Presidente Meloni, a partire dalla questione ucraina. Così come è imminente la visita del Capo del Governo italiano a Washington, su invito del Presidente Joe Biden.
E dato che la pressione politica di Pechino su Roma non risulta efficiente, soprattutto perché l’UE mira a ridurre i rischi limitando le importazioni strategiche, la Cina sta mettendo in campo i suoi legami economici e politici, la sua narrative warfare, per convincere il Governo italiano a non abbandonare il Memorandum d’intesa.
Peraltro, nuove norme sui sussidi esteri che entreranno in vigore entro la fine del 2023, permetteranno all’UE di vietare alle società cinesi (e non solo) di effettuare acquisizioni o aggiudicarsi grandi appalti pubblici, se tali società sono state o sono finanziate dal governo statale cinese; pratica che l’UE ritiene distorsiva.
Von der Leyen ha aggiunto che l’UE è vicina a un accordo su nuove regole utili a rendere più frequente la ritorsione contro gli Stati che tentano di utilizzare le restrizioni al commercio o agli investimenti come elemento di pressione.
Dal 2025, Pechino potrebbe avere interesse a passare da una geopolitica dell’appeasement con tutti i vincitori della Globalizzazione, unita a qualche piccolo vantaggio asimmetrico, ad una postura ancora più assertiva e power seeking nel sistema globale, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, che sono stati giudicati (erroneamente) incapaci di reagire alla nuova politica di potenza cinese.
Gli americani, finora, sono stati per usare il gergo maoista «l’amico lontano» da usare contro il «nemico vicino» cioè l’Unione Sovietica (la Russia di Putin di oggi).
All’apice di questa fase assertiva, dopo aver verificato il mancato crollo degli Stati Uniti e quindi il mancato avvio di un nuovo equilibrio multipolare guidato da Pechino, il rischio di un’escalation a Taiwan sarà elevatissima.
Considerazioni finali
Tornando all’intervista segnalata all’inizio di questa analisi, l’Ambasciatore cinese Jia ha affermato che «Molti leader lungimiranti in Europa hanno lanciato segnali chiari, in linea con gli interessi fondamentali dei propri Paesi e della parte europea», riferendosi alle recenti e controverse parole del Presidente francese Emmanuel Macron durante la visita in Cina.
Risulta evidente che ogni Stato europeo sta promuovendo l’interesse nazionale, e che l’insieme di questi interessi nazionali dovrà sapersi coniugare – in fretta – con le normative e i suggerimenti richiamati dal Presidente von der Leyen, pena una riduzione fattuale della capacità di influenza di Bruxelles.
Ciò, in un quadro geopolitico in cui le conseguenze drammatiche di un prossimo conflitto a Taiwan sarebbero ben superiori a quelle della guerra in Ucraina, il che dovrebbe spingere i Paesi occidentali a guardare alla sicurezza nazionale e internazionale quale obiettivo impellente.
In tal senso, appare curioso e superficiale chiedere alla Cina di favorire una mediazione con la Russia, dopo averla sostenuta prima del conflitto e continuando a sostenerla ora, anche in un triangolo di relazioni opache con Stati quali Iran, Bielorussia e Corea del Nord.
La Cina farà meno leva sul proprio peso economico per ottenere vantaggi di posizionamento in Europa, se gli Stati membri dell’UE, di concerto con Bruxelles, insisteranno nel dotarsi di strategie univoche e di tattiche locali/globali per difendere la produzione strategica (in particolare dual use), nel riarmarsi, nell’incrementare la capacità produttiva industriale ed agricola per i beni essenziali, nel continuare a investire nella difesa del perimetro delle reti e dei sistemi fisici e digitali.
Il resto lo faranno le spinte nazionalistiche cinesi (Taiwan) e la competizione con Washington. Infine, gli affari dovranno andare di pari passo con il principio di sicurezza, e quando questo si incrinerà, si incrineranno anche le garanzie di rientro da affari e investimenti.
In fondo, la Cina legge l’UE come il continuum strategico tra est e ovest del Mediterraneo, come porta inevitabile verso l’Africa e il Medio Oriente, come base di partenza per la Via della Seta, da usare un po’ per gli affari, un po’ per le sue strategie d’influenza (i due elementi non sono mai disgiunti).
Con riguardo all’Europa, è abbastanza sedimentato il concetto che gli interessi nazionali degli Stati membri non siano mai stati accolti con favore dalle istituzioni europee, dati anche gli sforzi politici e i costi economici sostenuti per presentare l’UE quale attore unitario sulla scena globale.
Il Memorandum fra Italia e Cina firmato nel 2019, in questo mutato quadro internazionale appare desueto al fine di potenziare le esportazioni del Made in Italy. L’interesse nazionale del nostro Paese può e deve essere tutelato con gli strumenti esistenti di politica estera e di politica economico commerciale che il Governo sta già utilizzando.
Andrà incrementato l’accesso delle nostre imprese al mercato cinese (e asiatico), ma vincolati al rispetto del diritto internazionale e delle norme europee, poiché la sicurezza nazionale e quella dei nostri partner dell’UE e della NATO, in un mondo sempre più turbolento, non ammetterà incertezze e commistioni.
Marco Rota*
*Analista politica internazionale e consulente strategico