Le comunità latinoamericane in Italia: contributi all’economia e alla società è un Forum a cura di Iila, Luiss e Cespi che si è tenuto a Roma il 23 maggio alla sede dell’Istituto Italo Latino Americano (iila.org). L’autore di queste note ne è stato moderatore. Qua un appunto riassuntivo del suo intervento introduttivo.
In Italia stando ai dati Istat gli stranieri residenti sono 5,2 milioni: l’8,8% della popolazione. Nella percezione corrente gli italiani a seconda dei rilevamenti ritengono che siano tra il 15%, quasi il doppio, e il 30%, quasi il quadruplo. In realtà gli stranieri che entrano in Italia per motivi di lavoro in Italia (8,5 per ogni 10.000 abitanti) sono molto meno rispetto alla media UE (29,8).
I latino-americani sono 365.000, di cui il 61% donne: 222.354. Cioè, lo 0,7% della popolazione, e il 7% degli stranieri. Un numero piccolo, per vari motivi. Innanzitutto, la tradizionale meta di immigrazione per i latino-americani sono gli Stati Uniti, anche più facilmente raggiungibili e con l’ambiente predisposto da una rete di contatti già esistente. Poi, altre destinazioni importanti sono le ex-potenze coloniali Spagna e Portogallo, con cui condividono la lingua. In terzo luogo, c’è un fattore importante di legame tra Italia e America Latina che è rappresentato da una diaspora di discendenti di italiani che costituisce una delle componenti principali della popolazione in Paesi come Argentina. Brasile, Uruguay o Venezuela, ma è presenta anche altrove, e che paradossalmente può celare nelle statistiche una forte presenza di latino-americani che hanno però conservato la cittadinanza italiana degli avi. Non a caso, tra le comunità latinoamericane numericamente più rilevanti in termini di presenza regolare sul territorio italiano troviamo nell’ordine Perù (96.546), Ecuador (72.193), Brasile (50.666), Repubblica Dominicana (30.255), Cuba (22.958), El Salvador (20.038) e la Colombia (19.848). Cioè, Paesi dove la presenza di oriundi italiani è minore: salvo il Brasile, che però appare per la semplice forza del suo peso demografico.
Insomma, in teoria la presenza delle diaspore latino-americane in Italia dovrebbe essere un fatto minore, e impercettibile dall’opinione pubblica. Invece, nei sondaggi risulta essere in termini di percezione da parte degli italiani la seconda comunità più apprezzata dopo quella filippina, con il 39%, che rappresenta 165.443 unità. Nel caso dei filippini ormai la vicinanza culturale per via di una lingua latina si è persa dalla fine della dominazione spagnola, nel 1898. America Latina e Filippine hanno però ereditato dalla Spagna una identità cattolica che li fa percepire come più vicini al sistema di valori italiano, anche se in entrambe le realtà negli ultimi decenni si sono diffuse anche varie denominazioni protestanti.
Un dato interessante è che anche per la comunità filippina in Italia sono più le donne: 93.948 contro 71.495. Tra le comunità più numerose in Italia le donne prevalgono tra i romeni (primi), gli ucraini (quinti), appunto i filippini (settimi) gli uomini tra gli albanesi (secondi), i marocchini (terzi), i cinesi (quarti), gli indiani (sesti), i bangladeshi (ottavi), gli egiziani (noni) e i pakistani (decimi). Tra le percezioni negative sull’immigrazione, c’è anche quella che sarebbe causa di delinquenza. Ora, l’Italia in base alle statistiche ha indici di criminalità tra i più bassi dell’Occidente, per cui la percezione sia una emergenza è, come nel caso appunto dell’emigrazione, è una esposizione fortemente basata sulla esposizione mediatica. Che invece gli stranieri siano più presenti in proporzione tra i detenuti è vero. Ma dipende essenzialmente dal fatto che vi possono essere più presenti segmenti di popolazione tipicamente più propensi a delinquere: maschi giovani spesso soli con redditi bassi e posizioni sociali precarie. Che sono però anche il tipo di segmento più propenso a fare un tipo di lavori che ormai gli italiani sono sempre più riluttanti a fare. In questo caso, settori di emigrazione a prevalenza femminile finiscono automaticamente di meno nella cronaca nera e dunque hanno in automatico una immagine migliore, anche se magari non è quella di Paesi di origine spesso flagellati da narcos, maras e alti indici di omicidio. In qualche modo, c’è la percezione che mentre alcuni Paesi mandino all’estero il peggio della loro società, altri esportino il meglio.
Un vertice del problema è l’impoverimento demografico e l’invecchiamento dei Paesi detti “ricchi”. Al 31 dicembre la popolazione residente in Italia è inferiore di circa 179.000 unità rispetto all’inizio dell’anno, nonostante il positivo contributo del saldo migratorio con l’estero. Il fatto che l’8,8% della popolazione produca il 9% e rappresenti il 10% degli imprenditori indica questa maggior giovinezza: come il fatto che nell’ultimo decennio (2011-2021) gli imprenditori stranieri sono cresciuti del +31,6%, mentre gli italiani sono diminuiti dell’8,6%. Per lo stesso motivo, se si sommano Irpef, Iva, imposte locali, contributi previdenziali e sociali, ecc. e altri introiti legati a richieste di permesso di soggiorno e alle richieste di acquisizione della cittadinanza, si ottiene un valore di 28,2 miliardi. Tenendo conto dei costi degli immigrati per il sistema fiscale, che ammontano a circa 26,8 miliardi tra sanità, istruzione, sicurezza, giustizia e servizi sociali, “l’analisi costi-benefici stima, dunque, un saldo positivo tra entrate e uscite pari a 1,4 miliardi di euro”. Ciò è principalmente dovuto al fatto che gli stranieri, essendo in prevalenza giovani, incidono meno sulla spesa pubblica (soprattutto sulle voci pensioni e sanità).
L’altro vertice è la mancanza di capitali nei Paesi detti “poveri”. Per loro una risorsa preziosa è appunto allora rappresentata dalle rimesse. Secondo la Banca Mondiale, nel 2022 l’ammontare totale delle rimesse degli emigrati nel mondo è arrivato a 630 miliardi di dollari. Quasi otto volte gli 80 miliardi indicati dall’Onu nel 2002, quando già rappresentavano il secondo flusso monetario nell’economia mondiale dopo quello derivante dal petrolio: erano oltre il doppio dell’aiuto della cooperazione allo sviluppo, e 10 volte l’ammontare dei trasferimenti di capitale privato netto. Ma già nel 2015 i 441 miliardi di dollari di rimesse erano il triplo dei 131 miliardi di dollari dell’assistenza ufficiale allo sviluppo globale. Le rimesse hanno subito un calo per via della pandemia, dal momento che nel 2018 la Banca Mondiale le aveva valutate a 689 miliardi, e nel 2019 a 715, coinvolgendo 250 milioni di lavoratori migranti. Durante il 2021 l’America Latina e i Caraibi hanno ricevuto 127,6 miliardi di dollari in rimesse, il che costituisce una crescita annua del 26,0%, la più alta registrata negli ultimi 20 anni.
Insomma, nel mercato dell’emigrazione si presenta uno scambio virtuoso tra ciò che manca da una parte, la manodopera, e ciò che manca dall’altra, i capitali. Il problema è che, ovviamente, l’immigrazione crea sconvolgimenti culturali: sia nei Paesi da cui i migranti partono, sia in quelli dove arrivano. Il dato è oggettivo, come risulta dal fatto che l’emigrazione sia divenuto tema elettorale anche nel Sud del Mondo, dal Cile al Sudafrica. In questo senso, le diaspore latino-americane per l’Italia rappresentano un valore aggiunto proprio perché riducono il problema.
Maurizio Stefanini*
*Roma, 1961. Giornalista e saggista, moglie e due figli, specialista in America Latina