A causa della brutale invasione russa dell’Ucraina, l’Occidente ha usato e sta usando le sanzioni economiche (la cui definizione può essere letta qui: consilium.europa.eu) contro la Federazione Russa.
I diversi tipi e livelli di intervento sanzionatorio sono diventati lo strumento scelto dai Paesi democratici per contrastare le azioni illegali di attori statali dal Myanmar all’Iran, dal Venezuela ad Haiti, dal Libano alla Somalia e oltre.
La vastità dei settori produttivi connessa alle sanzioni applicate a Mosca indica uno scenario che non registra precedenti nella Storia, e mette in luce come l’arma delle sanzioni si stia rapidamente strutturando nelle politiche vere e proprie degli Stati democratici e come aspetto potentissimo (più che nel passato) delle Relazioni Internazionali.
Se si prende ad esempio la Nato come organizzazione internazionale, sul piano militare viene in mente l’art. 5 del Trattato di Washington, la prima parte del quale recita testualmente: «Le Parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o Nord America sarà considerato un attacco contro tutte loro e di conseguenza convengono che, qualora si verifichi tale attacco armato, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva riconosciuta dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, assisterà la Parte o le Parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre Parti, le azioni che riterrà necessarie, compreso l’uso della forza, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area del Nord Atlantico».
In tal modo, i padri fondatori della Nato intesero impegnarsi al fine di proteggersi a vicenda, stabilendo così non solo un vincolo ma anche uno spirito di solidarietà (politico) all’interno dell’Alleanza.
Oggi, per ammonire gli Stati autoritari, le nazioni liberaldemocratiche dovrebbero precisare, in modo preventivo e in un quadro legale di misure condivise, quali sanzioni economiche scatterebbero da parte dei Paesi democratici a fronte di condotte illegali, in caso di violazioni dei diritti umani ma anche delle regole basilari del commercio e della concorrenza a livello globale.
A tal fine, sarebbe necessario istituire una nuova organizzazione con un nuovo “art. 5” di tipo “economico”, a sancire un principio di reazione non dei Paesi più forti, o di quelli occidentali, ma delle nazioni che condividono i concetti di libertà e democrazia quali cardini della convivenza civile.
Fino ad ora, le sanzioni economiche non hanno dissuaso tutte le azioni illegali perpetrate da Stati o grandi players economici privati (si pensi alla Russia), tuttavia esse sono diventate sempre più sofisticate ed efficaci.
Nel caso dell’Ucraina, si è assistito all’inedito congelamento delle riserve della banca centrale russa, al sequestro di molti beni degli oligarchi vicini a Putin, al divieto alle principali banche russe di accedere a Swift, il sistema ad alta sicurezza che permette di effettuare transazioni finanziarie in tutto il mondo.
La Cina e altri Stati non democratici sono preoccupati per la portata di queste sanzioni distintive.
Ma c’è di più e di più sistemico a livello economico, che va oltre la necessità di sanzionare singoli comportamenti, come un’invasione o il mancato rispetto di alcuni diritti umani.
Come ha detto Jianli Yang, attivista per i diritti umani e già detenuto in Cina per la sua condotta a favore della libertà, «la Cina è diventata una superpotenza totalitaria a tutti gli effetti con un’agenda strategica di egemonia militare, tecnologica ed economica, ricorrendo addirittura al palese furto di proprietà intellettuale. È diventato chiaro che la Cina rappresentava (e continua a rappresentare) la più grande minaccia all’ordine internazionale della libertà e dello stato di diritto, e persino al nostro stile di vita democratico in patria [ora Janli vive negli Stati Uniti, n.d.r.]; […] Il problema più grande da affrontare è la dipendenza praticamente di tutti i Paesi dall’economia cinese. […]».
I direttori delle agenzie di intelligence di Stati Uniti e Regno Unito hanno rilasciato una rara dichiarazione congiunta il 6 luglio 2022, avvertendo che il Partito Comunista Cinese è la più grande minaccia all’ordine internazionale. «La sfida più rivoluzionaria che dobbiamo affrontare viene dal Partito Comunista Cinese» ha affermato il Direttore Generale dell’MI5, Ken McCallum, «che sta esercitando di nascosto pressioni in tutto il mondo. Questo potrebbe sembrare astratto. Ma è reale ed è pressante. Dobbiamo parlarne. Dobbiamo agire» . Anche la BBC ha riportato la notizia, affermando che i capi dell’intelligence di Regno Unito e Stati Uniti hanno fatto un’apparizione insieme, senza precedenti, per avvertire l’opinione pubblica circa il pericolo cinese: «Il direttore dell’FBI Christopher Wray ha affermato che la Cina è “la più grande minaccia a lungo termine per la nostra sicurezza economica e nazionale” e ha interferito nella politica, comprese le recenti elezioni. Il capo dell’MI5 Ken McCallum ha affermato che il suo servizio ha più che raddoppiato il suo lavoro contro l’attività cinese negli ultimi tre anni e lo raddoppierà di nuovo. […] L’MI5 sta attualmente conducendo sette volte più indagini relative alle attività del Partito Comunista Cinese rispetto al 2018, ha aggiunto. […] La prima apparizione pubblica congiunta dei due direttori è avvenuta presso la sede dell’MI5 a Thames House, Londra. […] McCallum ha anche affermato che la sfida posta dal Partito comunista cinese è stata “rivoluzionaria”, mentre Wray l’ha definita “immensa” e “mozzafiato”, […] “una minaccia ancora più seria per le imprese occidentali di quanto avessero compreso anche molti raffinati uomini d’affari”».
Il Premier britannico Rishi Sunak ha affermato che la Cina rappresenta «la più grande sfida della nostra epoca» per quanto concerne la sicurezza e la prosperità globali, e che Pechino risulta «sempre più autoritaria in patria e all’estero».
Ma torniamo alle parole di Jianli Yang: «Se applichiamo il principio fondante della NATO circa la reciproca difesa e lo ampliamo dall’ambito militare alla sfera economica, ogni volta che la Cina usa la coercizione economica per intimidire uno Stato membro su questioni ad esempio di diritti umani, gli altri dovrebbero automaticamente e immediatamente rispondere aumentando gli scambi economici con il membro vessato. Ciò aiuterà a rompere il dilemma dell’azione collettiva, in cui tutte le democrazie sono rimaste intrappolate. Questo è molto importante per tutti, soprattutto per i Paesi più piccoli. In base a come funzionerebbe il trattato che ho in mente, se un Paese non democratico compisse un’azione economica ritorsiva contro uno Stato membro che ha difeso i principi democratici, tutti gli altri membri dell’accordo dovrebbero intervenire proattivamente in sua difesa per contribuire ad alleviarne la sofferenza economica.
La sicurezza economica è il pilastro più importante della democrazia. Ritengo che il concetto che sta alla base della NATO possa essere ampliato per includere tutte le democrazie, al fine di garantire la loro vitalità economica e di contrastare la coercizione economica della Cina, offrendo al contempo ai Paesi in via di sviluppo un’opzione migliore e un futuro economico più luminoso, senza dover ricorrere ad azioni militari. Propongo quindi una versione economica della NATO».
Il Generale Keith Alexander, già a capo dell’NSA, ab illo tempore aveva descritto il furto di proprietà intellettuale da parte della Cina e di altri Stati illiberali come «il più grande trasferimento di ricchezza della storia» , perché – è sempre Alexander a parlare – la Cina ha costruito intere industrie usando formule rubate, piani e tecniche che per essere sviluppati sono costati anni e miliardi di dollari agli Stati occidentali e alle loro aziende.
Nei giorni scorsi, mentre i leader del G7 inviavano un messaggio inequivocabile alla Russia di Putin invitando il presidente ucraino Zelensky a Hiroshima, avevano in mente il vero rivale sistemico: la Cina.
In Giappone, i rappresentanti politici delle democrazie più ricche del mondo hanno chiarito la loro posizione su questioni assai divisive come il quadrante asiatico, con all’interno l’Indo-Pacifico e Taiwan, tuttavia, la parte più importante del messaggio giunto dal summit è stata incentrata sulla cosiddetta «coercizione economica».
Ma qual è la definizione di coercizione economica? Si può dire che le azioni di coercizione economica si fondano comunemente su tecniche di guerra economica (economic warfare) contro Stati-target per scopi politici, in specie per modificare le scelte dei decisori politici di uno Stato-target e dissuadere i partner commerciali dall’imitare scelte analoghe. In poche parole, si tratta di una sfera della guerra ibrida (guerra convenzionale/non convenzionale) che si svolge con mezzi economici, finanziari, commerciali, valutari, a fini politici. Ne deriva che uno Stato, qualora diventi target di simili azioni, possa compromettere seriamente:
1. Il proprio commercio internazionale (con conseguenze sulla Bilancia commerciale);
2. I propri conti pubblici;
3. Le proprie Relazioni internazionali;
4. La propria sicurezza nazionale e quella dei suoi partner (ad esempio in ambito Nato), in ordine a
temi come le infrastrutture critiche, le catene del valore (supply chain non solo logistica), le
tecnologie (dual use).
5. Il livello del proprio tessuto democratico, che si fonda sulle libertà economiche degli Stati oltre che
sui diritti individuali.
L’assertività cinese è aumentata, nonostante le economie dei membri del G7 siano diventate dipendenti dalla Cina attraverso i commerci regionali e globali. Nelle scorse settimane, Ursula Von der Leyen ha affermato che «l’obiettivo chiaro del Partito comunista cinese è un cambiamento sistemico dell’ordine internazionale con la Cina al centro, dove i diritti individuali sono subordinati alla sovranità nazionale. Dove la sicurezza e l’economia prendono il sopravvento sui diritti politici e civili», ma ha dichiarato che a proposito del rapporto con la Cina «Dobbiamo concentrarci sulla riduzione dei rischi, non sulla separazione [delle economie, n.d.r.]». Von der Leyen, che era al G7, ha sostenuto questa tesi che ha ricevuto una generale approvazione da parte dei partecipanti.
In verità, anche dalla rilettura del comunicato finale del vertice (whitehouse.gov), traspare l’idea un po’ diversa che gli Stati Uniti hanno del «disaccoppiamento» con la Cina, che per gli americani significherà un’attività diplomatica certamente più hard, completata da una netta diversificazione dell’approvvigionamento commerciale e da alcune azioni sicuramente protezionistiche in ordine a tecnologia e commercio globale. Durante un evento organizzato dal Mercator Institute for China Studies e dallo European Policy Center, von der Leyen aveva già affermato che la Cina fosse un partner commerciale fondamentale, mettendo in guardia però che il rapporto economico tra Cina ed Europa stesse diventando sempre più sbilanciato e che la «fusione esplicita dei settori militare e commerciale» da parte cinese iniziasse a porre ora dei rischi per la sicurezza europea.
Per americani ed europei l’approccio alla sicurezza nazionale resta culturalmente diverso (whitehouse.gov), ma durante questo vertice giapponese si è registrato un passo avanti dato che i rischi sono risultati finalmente chiari a tutti i partecipanti ed è condiviso l’intento di mitigarli insieme.
I leader del G7 hanno promosso l’istituzione di una «piattaforma di coordinamento» per contrastare le attività di guerra ibrida di tipo economico, e favorire concretamente relazioni e progetti con le economie emergenti (vedremo la motivazione in conclusione).
A Hiroshima si è deciso di rafforzare la difesa delle catene di approvvigionamento per i beni finali strategici come i minerali e i semiconduttori, nonché rafforzare l’infrastruttura digitale per prevenire l’hacking e il già richiamato e connesso furto delle tecnologie. Un altro aspetto strategico molto interessante è quello del controllo multilaterale delle esportazioni, cioè la cooperazione atta a garantire che le tecnologie, in particolare quelle utilizzate anche in campo militare e dall’intelligence (dual use), non finiscano nelle mani di «attori statali malintenzionati».
Le procedure politiche e gli strumenti operativi di questa piattaforma di coordinamento possono rappresentare i primi passi di una futura Nato economica, certamente attraverso un’elaborazione nuova ma non completamente inedita di normative di applicazione necessaria di origine statale, europea ed interstatale.
La strada, insomma, è quella indicata a Hiroshima, e servirà a definire le future relazioni con la Cina e altri Stati in settori critici come la microelettronica, l’informatica quantistica, la fusione nucleare, la robotica, l’intelligenza artificiale, la biotecnologia.
Dunque, è possibile segnalare alcuni punti essenziali a guisa di orientamento per una Nato economica, partecipata anche dai Paesi asiatici democratici, a cominciare da Giappone e Corea del Sud.
1. Riconoscere che, al netto del commercio internazionale, il rafforzamento della sicurezza economica richiede la cooperazione con partner che praticano la difesa e la promozione dei diritti umani;
2. Riconoscere che la competizione leale per i minerali critici sarà enorme anche tra partner dell’organizzazione;
3. Promuovere un’agenda di sicurezza economica cooperativa che si relazioni con il Sud del mondo, dall’Africa al Sud America. Gli sforzi per costruire catene di approvvigionamento resilienti per i minerali critici, infatti, richiedono un impegno con gli Stati-produttori nel rispetto delle dinamiche locali;
4. Promuovere una narrativa contro gli Stati autoritari e sul valore della libertà economica e della concorrenza internazionale.
In realtà, come ha scritto Edward Luttwak a proposito della Cina: «L’effetto specifico che ne risulta è quello di ridurre la capacità del regime nel suo complesso di percepire con chiarezza la realtà internazionale […] Un altro fattore è rappresentato da un particolare fenomeno che potremmo definire come “sindrome da deficienza strategica acquisita” (ASDS) della Cina, per la quale il comune buonsenso e la faticosa consapevolezza della paradossale logica della strategia sono soppiantati da una spiccata tendenza a fare eccessivo affidamento su inganni, piccoli e grandi stratagemmi e tecniche per “trattare con i barbari” che degenerano nella gamesmanship, ossia l’arte di giocare in modo sleale pur rispettando le regole».
Una Nato economica su scala globale supporterebbe l’Ue anche in merito alle pratiche distorsive cinesi nell’economia mondiale.
Di recente, la stessa Ursula Von der Leyen ha affermato che l’Ue è vicina a un accordo su nuove regole utili a rendere più frequente la ritorsione contro quegli Stati che tentano di utilizzare le restrizioni al commercio; nondimeno, nuove norme sui sussidi esteri entreranno in vigore entro la fine del 2023, permettendo all’Ue di vietare alle società cinesi (e non solo) di effettuare acquisizioni o aggiudicarsi grandi appalti pubblici, se tali società sono state o sono finanziate dal governo statale cinese; pratica che per l’appunto l’UE ritiene distorsiva.
Alcune di queste attività rientrano non casualmente negli schemi di finanziamento statale previsti dall’iniziativa denominata BRI, Belt and Road Iniziative (ancora il soft power), che consente alle autorità pubbliche cinesi di accordare vantaggi, in specie sostegni finanziari, alle imprese cinesi che lavorano in Paesi minori ed emergenti.
Extrema ratio, infine, la presenza di una Nato economica segnalerebbe anche alla Cina (e non solo) che qualsiasi invasione di Taiwan determinerebbe l’unità immediata degli alleati, inclusa una dura risposta economica e finanziaria prima ancora che militare, sul modello di quanto è accaduto con la Russia e la sua brutale aggressione all’Ucraina.
E qui ritorna il tema dapprima richiamato, circa la possibilità di calibrare sanzioni economiche multilaterali decise dentro una nuova organizzazione come la Nato economica, con un impatto storicamente mai visto nelle relazioni internazionali e commerciali, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, in una dimensione globale e connessa in modo insopprimibile a concetti come libertà e democrazia.
Marco Rota*
*Analista politica internazionale e consulente strategico