Sino a che punto può spingersi una madre pur di salvare la propria famiglia? In Somalia, sino ad avvelenare i figli. I genitori dicono che è l’unico modo per salvarli e per procurare cibo ai loro cari. “Non abbiamo altra scelta”, confessa Maceey Shute alla giornalista Ftahi Mohamed Ahmed in un articolo recentemente pubblicato dal quotidiano spagnolo El Pais. Un rimedio estremo e pericoloso escogitato da madri disperate in un Paese affamato dalla siccità e dalla guerra dove entro l’estate, secondo una stima dell’ONU, ci saranno quasi due milioni di bambini sotto i cinque anni affetti da grave malnutrizione.
Cinque anni di piogge quasi inesistenti, hanno ridotto il Paese del Corno d’Africa in una situazione drammatica: cinque milioni di persone non hanno cibo a sufficienza, un milione è senza casa, quattro milioni di capi di bestiame sono andati persi e i raccolti distrutti. Il perdurare della carestia ha inoltre aumentato la conflittualità tra gruppi sociali favorendo il radicamento dei terroristi di al-Shabaab, il gruppo di matrice jihadista legato ad al Qaeda, che continuano a seminare il terrore e a controllare vaste aree delle campagne dove avvelenano i pozzi d’acqua, tassano i contadini e reclutano forzatamente i più giovani nelle loro fila.
I conflitti interni e la carestia costringono molti somali a percorre estenuanti viaggi dalle zone rurali alle aree urbane in cerca di nuove opportunità di vita. Nella maggior parte dei casi finiscono negli assiepati quartieri degli sfollati interni o nei campi profughi. Ma anche lì si rischia di morire di fame perché i beni di prima necessità arrivano a singhiozzo, spesso confiscati dai militanti di al-Shabaab.
Ed è in uno di questi campi, non lontano da Mogadiscio, che la giornalista di El Pais ha raccolto le drammatiche testimonianze di madri che scelgono di avvelenare i figli pur di tentare di salvare loro la vita. Lo fanno “alimentandoli” con acqua mista a detersivo e sale così da farli stare mare e ricoverarli nelle strutture sanitarie. Qui i bambini vengono curati e ricevono cibo gratuito e di qualità: parte di questi alimenti viene conservata dalle donne per poi venire distribuita agli membri della famiglia o, spesso, venduta.
Ma questo non è il solo “metodo” che le donne somale utilizzano per sopravvivere. Chi non è in condizioni di andare per strada a chiedere la carità “affitta” neonati e bambini a mendicanti che, al termine della giornata, versano alle famiglie una parte di quanto raccolto chiedendo l’elemosina con i piccoli.
Amino Ikar Hilowle è una madre di otto figli, fuggita dalla sua fattoria in un piccolo villaggio a sud del Paese. Vaga per le strade di Mogadiscio con un piccolo di 18 mesi sulla schiena chiedendo soldi alle porte di centri commerciali, hotel, ristoranti e banche. Ma il bambino non è suo. Confessa a El Pais: “ho concordato un piano di partecipazione agli utili con la madre di questo piccolo in base al quale lei riceve una parte del denaro che raccolgo dall’accattonaggio”. Hilowle spiega che le persone elargiscono più volentieri denaro a chi è con un bambino piccolo: “quando lo porto con me, raccolgo mediamente 12 dollari al giorno”.
E in questi luoghi di disperazione non mancano i matrimoni forzarti. La figlia quindicenne di Shute, Maryan, è stata costretta a sposare l’uomo che gestisce il campo poco dopo che lì si è traferita la sua famiglia: “mio padre mi ha detto che dovevo sposare quel vecchio”, dice l’adolescente a El Pais. “Mi ha detto che questo matrimonio avrebbe migliorato la vita della nostra famiglia perché avremmo potuto rimanere nel campo gratuitamente e ricevere più aiuti”. Maryan all’inizio ha rifiutato di sposarsi ma alla fine ha ceduto perché molto preoccupata per la terribile situazione finanziaria della sua famiglia.
Un sacrificio inutile. Perché, come conclude Maryan, “sono sposata da due mesi, ma le nostre vite sono migliorate ben poco”.
Claudia Ruggeri