Recentemente è stato sollevato contro Volkswagen un caso di lamentela circa l’impiego di forza lavoro dello Xinjang nei suoi stabilimenti di Urumqi.
Ricordiamo che l’area a Nord-ovest dei confini cinesi è a base etnica musulmana ed ha registrato proteste (soprattutto tra 2009 e 2014 ma anche dopo) sedate con la forza e poi cristallizzate da una legislazione “antiterrorismo” del tutto coercitiva e da poco ulteriormente rafforzata. Questo “caso Volkswagen” nasce come violazione dei diritti umani e si sta sviluppando in forza di una normativa ad hoc varata in Germania.
Fatto rilevante: secondo gli analisti ci sarebbero gli estremi per intraprendere azioni legali simili anche contro BMW e Mercedes sempre in relazione ai loro stabilimenti nello Xinjang.
Per fare un esempio, gli Stati Uniti hanno il divieto rigoroso anche solo di importare merce prodotta in quell’area.
Va detto che soprattutto la Volkswagen – delle tre – è nel mirino della legge tedesca e del Centro europeo per i diritti umani e costituzionali (CEDU), perché questa azienda possiede una quota di minoranza nella joint venture a capo degli stabilimenti nello Xinjang presieduti dalla cinese Saic motor (chiaramente legata al PCC).
Le prime avvisaglie si erano verificate già lo scorso febbraio in seguito alla visita presso gli stabilimenti da parte del direttore tedesco di Volkswagen, con esito interlocutorio dal momento che i lavoratori dell’impianto intervistati erano stati scelti in base ad una campionatura ad hoc, e ovviamente temevano ritorsioni. Come riportato da Reuters: «Il direttore della sostenibilità presso Volkswagen Deka Investment ha detto che il rischio reputazionale di mantenere l’impianto nello Xinjang potrebbe influire sulla quote di mercato dell’azienda e che alcuni fondi si sono già spostati verso altri portfolio escludendo le quote VW dopo che Morgan Stanley ha emesso un avviso di avvertimento lo scorso novembre relativo a valori ambientali, sociali e di governance». (VW under fire over Xinjiang plant after China chief visit, 28 febbraio 2023).
Nello Xinjang, Volkswagen non assembla vetture ma fa quality check e, fatto più importante, realizza batterie per auto elettriche. Dopo la pandemia la produzione si è contratta, il personale è stato ridotto del 65% e oggi vi si testano 10mila unità contro le 50mila per le quali l’impianto era stato concepito.
Come ha scritto il Financial Times, l’espansione continua con «un investimento da 2.4 bilioni della Horizon robotics, un’azienda cinese di chip in sinergia con Volkswagen il cui software Cariad avrà un aumento di forza lavoro ingegneri dell’ordine di 1200 unità a stretto giro». (Can Volkswagen win back China, 9 maggio 2023).
Com’è noto, il fronte della proiezione di potenza mercantilista della Germania si sposta sempre di più a Oriente, con ciclici arretramenti quando il sistema-paese deve fare i conti anche con la propria sicurezza (garantita dalla NATO, ma in specie da 40 siti militari con quasi 40mila soldati americani), e di fronte ad investimenti giganteschi come quelli di Intel sul suolo tedesco (it.euronews).
Basti pensare che Die Zeit ha ospitato tranquillamente nell’inserto domenicale di maggio un lungo articolo (ben scritto, ma quasi di gossip) dedicato al top degli oligarchi russi, tale Andrej Melnitschenko (zeit.de).
Tornando al settore automobilistico, Volkswagen è più rilevante di un oligarca russo e certo saprà trarre conclusioni non affrettate riguardo al tema dei diritti umani e della repressione in Cina.
Nel mentre, un altro colosso tedesco, Siemens, si è mosso su due binari. Ha annunciato di aprire in Shenzen un nuovo impianto per la ricerca e lo sviluppo spendendo 140 milioni di dollari per ampliare del 40% quello già esistente a Chengdu nel Sud-est della Cina. Ma ha puntato anche sulla diversificazione delle catene di approvvigionamento, per non essere eccessivamente dipendente dalla Cina (la pandemia insegna, a proposito di logistica), con un investimento di oltre 200 milioni di dollari a Singapore per un nuovo impianto di automazione. (Financial Times, Siemens unveils big investments in China, 15 giugno 2023).
Il Ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, ha affermato come «Nel quadro dell’UE, siamo pronti anche a sostenere l’arresto delle importazioni da regioni con violazioni particolarmente massicce dei diritti umani, quando non possono essere garantite con altri mezzi le catene di approvvigionamento libere da violazioni dei diritti umani», sottolineando, circa le esportazioni tedesche in Cina, che il Governo Federale dovrà assicurarsi che nessun armamento o bene dual use venga impiegato «per la violazione dei diritti umani e la repressione interna».
Il riferimento è alle massicce violazioni dei diritti umani nel già citato Xinjiang, provincia popolata dalla minoranza musulmana degli uiguri, ma anche al Tibet e alla situazione di Hong Kong. Per non parlare – aggiungiamo noi – della minaccia contro Taiwan, o degli aiuti concreti che la Cina sta fornendo alla Russia di Putin nell’aggressione all’Ucraina, alla Corea del Nord, a Cuba, all’Iran.
Settori importanti della politica tedesca, rappresentati da figure atlantiste come quella di Baerbock, oggi sono in aperto contrasto con le posizioni di buona parte dell’industria tedesca, poco interessata al fatto che la Cina stia provando a plasmare un ordine globale non multilaterale o più equilibrato, ma a trazione comunista e totalitaria in spregio ai diritti umani.
Senatore Giulio Terzi di Sant’Agata