«L’Iran ha sviluppato un vasto arricchimento dell’uranio, reso evidente attraverso il lavoro dei gruppi di opposizione iraniani e le successive indagini da parte dell’IAEA. Le rivelazioni fin qui pervenute circa i laboratori di ricerca di Natanz e Teheran, l’acqua pesante dello stabilimento produttivo di Arak, e il riconoscimento di significative quantità di uranio proveniente dalla Cina, confermano le sollecitazioni dell’intelligence sulle capacità nucleari iraniane e riducono il tempo rimanente prima che esse possano raggiungere una soglia di arricchimento pericolosa. Queste scoperte e la serie di rivelazioni allarmanti emerse attraverso altre ispezioni dell’IAEA, hanno anche fatto sorgere nuovi dubbi sulla credibilità dell’impegno iraniano a rispettare i termini del Trattato di non proliferazione nucleare».
Non sono parole di oggi. Le scrisse Zbigniew Brzezinski quasi vent’anni fa, nel 2004.
Venendo all’oggi, si noti come, secondo fonti israeliane, nell’impianto di Fordow a sud di Teheran una visita non concertata di due ispettori atomici delle Nazioni Unite avrebbe riscontrato – sempre poche settimane fa – una soglia di purezza dell’uranio dell’83%. Per il JPCOA essa sarebbe dovuta rimanere di poco superiore al 3%, mentre l’IAEA sostiene in documenti ufficiali che quella del 60% sia già stata oltrepassata.
Un’analisi del report di verifica e monitoraggio IAEA si trova open source: isis-online.org (Analysis of IAEA Iran Verification and Monitoring Report – May 2023).
Il Generale Mark Milley, lo scorso marzo davanti al Senato americano, ha detto che «L’Iran potrebbe produrre una quantità sufficiente di materiale fissile per un’arma nucleare in 10-15 gironi, e che servirebbero solo diversi mesi per produrne una effettiva».
I micro-accordi del Governo degli Stati Uniti come quello sancito dopo l’incontro in Oman sono sgraditi sia a Israele che al Congresso americano, che ormai può opporsi alla firma presidenziale di un nuovo accordo ufficiale con l’Iran.
I colloqui di Biden con Teheran incontrano un crescente scetticismo bipartisan a Capitol Hill. Tra l’altro, il Senatore Lindsey Graham, affiancato dai colleghi Bob Menendez e Richard Blumenthal, stanno lavorando ad una legge che richiederebbe al direttore della National Intelligence di notificare al Congresso entro 48 ore se l’Iran producesse o possedesse uranio con una soglia di purezza superiore al 60% (una soglia che, come prima ricordato, l’IAEA reputa già oltrepassata).
Inoltre, la dottrina degli Stati Uniti secondo la quale l’Iran stia infrangendo la risoluzione numero 2231 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU appoggiando la Russia attraverso la fornitura di droni (e non solo), è stata rafforzata dalla recentissima minaccia iraniana di utilizzare il missile balistico Khorramshahr a lungo raggio, che con i suoi 2000 km di gittata, a detta di Teheran, potrebbe raggiungere non solo Israele, ma anche l’India e la Grecia.
Una nota Reuters del 19 giugno, subito ripresa da IranIntl, preannunciava che il raduno parigino del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (NCRI, National Council of Resistance of Iran) non si sarebbe tenuto, per qualche ragione politica legata al tentativo francese di de-escalation con il regime iraniano; invece la manifestazione di Parigi è avvenuta con successo, nelle stesse ore in cui ad Auvers-sur-Oise si teneva un’edizione portentosa del vertice mondiale per un Iran libero (Free Iran World Summit 2023. Onward to a Democratic Republic), alla quale ho avuto l’onore di presenziare.
A questo vertice erano presenti Mike Pence, John Bolton, Wesley Clark, Joe Lieberman, Liam Fox, James Jones, John Bercow, e molti altri rappresentanti della politica e delle istituzioni a livello globale, espressione di idee sia conservatrici che progressiste. Mike Pompeo, un altro illustre sostenitore del NCRI – intervenuto in videocollegamento come l’ex Primo Ministro britannico Liz Truss – ha messo in guardia dal firmare qualsiasi nuovo accordo con Teheran circa il programma nucleare, poiché si tratterebbe di «una calamità per il popolo iraniano e per il mondo».
L’Iran è rimasto disorientato dalla reazione dei mercati europei, quando prevedeva un sensibile aumento delle richieste di forniture di idrocarburi da parte dell’Europa. Questo non è avvenuto e il regime ha continuato a utilizzare la soglia di purezza dell’uranio come leva per ogni richiesta al rialzo soprattutto verso Parigi ma anche con la Casa Bianca. Ciò in un contesto dove l’interoperabilità dual-use tra Iran, Russia e Cina è assodata e rappresenta una minaccia ancora più pericolosa se si guarda alla “redistribuzione” del potere che sta avvenendo a Mosca tra siloviki, servizi segreti, esercito e potentati energetici, nonché al ricatto nucleare permanente posto in essere dalla Russia.
Un quadro allarmante che, come prima richiamato, sta spingendo gran parte dei parlamentari americani, democratici e repubblicani, a ricompattarsi velocemente sugli obiettivi di politica estera, in specie contro le minacce di Cina, Russia, Iran, Cuba. Questi posizionamenti politici sono stati lampanti anche al summit di Auvers-sur-Oise, esemplificati da un discorso bipartisan e di grande levatura politica pronunciato da Joe Lieberman.
Maryam Rajavi, la Presidente eletta del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, ossia la maggior forza di opposizione al regime dei mullah, è stata la protagonista politica indiscussa di questo evento mondiale. Una donna con elevate qualità morali, culturali e spirituali, discendente della dinastia dei Qajar che regnò in Iran sino al 1925. Un ponte significativo verso il passato persiano, obliterando l’esperienza dell’altra dinastia, quella più breve e repressiva dei Pahlavi.
«Nessun regime oppressivo può durare per sempre», ha detto Mike Pence, che ha parlato in presenza all’incontro dopo che lo scorso anno aveva fatto visita a Rajavi in Albania, presso la sede centrale dell’Organizzazione dei Mojahedin del popolo iraniano (MEK, Mojahedin-e-Khalq).
E Joe Lieberman, noto per essere un grande cultore dei presidenti John Adams e George Washington in relazione ai fondamenti religiosi della società americana, nel suo discorso parigino ha messo in risalto i valori della fede e della libertà, citando parallelamente l’esempio di Maryam Rajavi e cioè di una donna musulmana fortemente religiosa che sostiene con forza la laicità delle istituzioni e le libertà costituzionali.
Nel 2015, invitata per un’audizione presso il Congress Sub-Committee on Terrorism, Non-Proliferation and Trade di Washington, Rajavi disse: «L’esperienza degli ultimi tre decenni mostra che in assenza di una ferma politica nei confronti dell’epicentro del fondamentalismo, ci saranno conseguenze distruttive». Nel 2016, nella Salle de la Mutualité di Parigi, aggiunse: «Ribadiamo che le donne iraniane devono essere libere! Devono essere libere di scegliere in cosa credono, cosa indossare e come vivere. E ripetiamo NO al velo obbligatorio; NO alla religione obbligatoria; e NO al governo coercitivo».
Maryam Rajavi, che ha definito «inevitabile» il rovesciamento del brutale regime iraniano, ha sottolineato i rischi collegati alla disinformazione, ai sabotaggi, agli attentati (persino contro i familiari dei politici che sono nel mirino del regime iraniano, a livello globale), sottolineando la storia della lotta delle donne iraniane contro la misoginia del regime ed i sacrifici compiuti come PMOI/MEK.
In linea con Rajavi, l’ex direttore dell’FBI Louis Freeh ha dichiarato circa il regime change a Teheran e i diritti umani che «La dittatura ora sopravvive con la repressione, la disinformazione e la tortura al pari di un’organizzazione criminale […] ma la violenza delle repressioni ci mostra la debolezza estrema di chi le pratica».
Se quello di Joe Lieberman è stato un raffinato intervento politico, rivolto non solo ma principalmente alla classe dirigente americana, quello di John Bolton è stato più lapidario. Bolton, per sua stessa ammissione, è il nemico numero 1 sulla lista del regime teocratico iraniano. Al summit di Auvers-sur-Oise egli ha parlato senza mezzi termini delle operazioni di guerra ibrida condotte da Teheran: «Un anno fa hanno lanciato il loro maggiore cyberattacco contro il governo albanese, abbiamo visto le prove pochi giorni dopo. L’Albania è un Paese piccolo e questo è il modo in cui lavora il governo iraniano […] preparando le bombe in Belgio […] terribile errore del governo del Canada […] ma abbiamo avuto la dimostrazione della paura che può avere il governo iraniano», aggiungendo di conoscere alla perfezione «i tentativi di omicidio di membri attuali e precedenti del governo americano […] i dettagli di quello organizzato contro di me sono sul sito del governo e i tentativi si sono infittiti dal 2015».
Bolton ha detto che sarebbe un grande fallimento aspettarsi qualcosa da una trattativa: «Sbaglierebbe tutto l’Occidente», per poi concludere con il suo dono della sintesi – riferendosi all’Iran – che «Tra un anno saremo lì».
I rapporti di Rajavi con l’attuale Dipartimento di Stato americano restano freddi, perché l’Amministrazione Biden è titubante nell’affidare al MEK la leadership politica della rete di oppositori al regime di Khamenei. Ma il potente supporto angloamericano visto al summit parigino fa pensare che l’influenza del MEK di Maryam Rajavi non possa che aumentare, anche perché questo movimento si era sempre assestato su posizioni molto progressiste, pur supportate prevalentemente da esponenti di spicco della destra americana.
Ora questa politica bipartisan, soprattutto al Senato, in funzione anche anti-iraniana, sta dando vita ad un’accelerazione senza precedenti che rafforza anche il movimento di Rajavi e si collega alle pesanti preoccupazioni espresse più volte da Israele. Il Presidente Biden dovrà farne tesoro perché il suo filo per tessere la tela di un nuovo accordo con Teheran si è rotto e la pericolosità del regime iraniano aumenta ogni giorno.
Il tempo stringe o forse – intimamente – i pensieri del Presidente americano, quelli di John Bolton e quelli dei parlamentari del Congresso sono più simili di quanto si possa immaginare, e stanno emergendo come a Auvers-sur-Oise.
Marco Rota