“Me jubilo sin júbilo alguno” aveva annunciato Carlos Alberto Montaner (instagram.com) il 5 maggio ai suoi lettori: molti, visto che con le sue molteplici collaborazioni si trattava in assoluto dell’editorialista più presente nella stampa di lingua spagnola dei vari continenti (cnnespanol.cnn.com). Un gioco di parole: Mi ritiro senza alcuna gioia.
“Mi ritiro dall’editorialismo’. Le mie rubriche, per anni, sono state distribuite dalla mia più stretta collaboratrice, Lucía Guerra. Ho compiuto 80 anni. Ho la paralisi sopranucleare progressiva (Psp). Il nome dice tutto. È una rara malattia del cervello. Mi è stata diagnosticata all’ospedale Gregorio Marañón – uno dei migliori in Spagna – dopo una risonanza magnetica. Ne soffrono tre persone ogni 100.000. Non è contagioso, né ereditario. Non c’è cura per questo. Non si sa come inizi o perché abbia origine. Appartiene alla famiglia del ‘parkinsonismo’, ma senza tremori. Da qui la confusione nella diagnosi. Si caratterizza per impedirmi di conversare bene e di leggere, al di là dei titoli (Linda, mia moglie e nostra figlia Gina, mi leggono i giornali), non scrivere ‘bene’ tutto ciò che mi ha permesso di scrivere per più della metà un secolo – tra l’altro – una rubrica ‘sindacata’ alla settimana. Ho scritto migliaia di editoriali e devo tutto ciò che ho fatto successivamente ai miei articoli”.
Il 30 giugno la famiglia ha reso noto che era deceduto, il giorno prima (infobae.com). Il 4 luglio è stata reso noto un suo scritto postumo in cui rivendicava la scelta dell’eutanasia (cnnespanol.cnn.com). “Quando leggerete questo articolo sarò morto. ‘Vivere è un diritto, non un obbligo”, ha detto Ramón Sampedro, uno spagnolo diventato tetraplegico dopo un incidente in spiaggia. La sua vita, la sua lotta per l’accesso al suicidio assistito e la sua morte sono state interpretate al cinema da Javier Bardem nel film ‘Il mare dentro’. ‘“Don Carlos, torna a vivere in Spagna?” mi chiese un vicino incuriosito di Brickell Avenue, dove abitavo a Miami. ‘No. Morirò in Spagna’, risposi dolcemente, con un sorriso, e proseguii per la mia strada. Del resto ho vissuto 40 anni a Madrid, la mia intenzione era quella di tornare a vivere nel mio appartamento davanti al parco del Retiro, ho la nazionalità spagnola e credo fermamente nell’eutanasia e nella morte assistita, come, fortunatamente, pensa più del 70% degli spagnoli”. “Ho iniziato a scrivere questo articolo a Miami all’inizio del 2022 e lo concludo dettandolo, visto che attualmente ho grosse difficoltà a scrivere. In quel momento, prima di essere informato di una diagnosi più grave, sono giunto alla conclusione che non avrei permesso che il Parkinson di cui soffrivo da alcuni anni mi togliesse altre facoltà. A quel punto avevo già perso la capacità di improvvisare oralmente, ma non la capactà di scrivere. Sembra che il cervello ospiti le due facoltà in luoghi diversi. In ogni caso, tutto andrebbe peggio”.
Carlos Alberto Montaner era mio amico. Nel 1992 avevo tradotto in italiano Vigilia della fine. Fidel Castro e la Rivoluzione Cubana (unilibro.it), che poi era in realtà un libro del 1983: Fidel Castro y la revolución cubana (amazon.com). Ma era stata poi rielaborata e reintitolata Vispera del final (books.google.it) alla luce della caduta del comunismo in Europa Orientale. “Para Maurizio, complice y amigo, en este libro que yá es de ambos”, era la dedica che mi aveva scritto in una copia del libro. “Per Maurizio, complice e amico, in questo libro che ormai è di tutti e due”.
Implicitamente autorizzato, lo ho in effetti saccheggiato ogni volta che ho dovuto scrivere su Fidel Castro. In particolare, la biografia a puntate che feci per il Foglio nel 1997 e che fu poi raccolta in volume con altre biografie (ebay.it), e un capitolo nell’altro mio libro del 2007 I nomi del male (amazon.it). Nel 2015 avevo poi tradotto anche la sua prefazione al libro Letteratura e libertà. Borges, Paz e Vargas Llosa (amazon.it), pubblicato in italiano dall’Istituto Bruno Leoni (brunoleoni.it).
Ma gli avevo fatto anche da interprete, quando il suo libro era stato presentato. E lo avevo intervistato molte volte. L’ultima giusto due anni fa, quando mi aveva detto della sua malattia. Era stato infatti fondatore e leader di una Unione Liberale Cubana in esilio, nel momento in cui la caduta del comunismo nell’Est Europa aveva fatto intravedere un possibile scenario del genere anche nell’isola: stessa ragione, si è ricordato, del cambio di titolo e dell’aggiornamento del libro da me tradotto. Come ricorda il gioco di parole da cui siamo partiti, aveva un forte senso dell’autoironia, e parlando della sua analisi sul possibile effetto del crollo dell’Urss sul regime castrista ammetteva: “ma forse, come molti esuli, anche io soffro di exilium tremens”. Battute a parte, la riflessione sulla tenuta del comunismo a Cuba mentre crollava nel resto del mondo gli aveva probabilmente ispirato il Manual Del Perfecto Idiota Latinoamericano (amazon.it): irresistibile pamphlet contro il populismo che fu il suo massimo best-seller. Profetico, purtroppo, visto che di lì a poco il chavismo venezuelano avrebbe rivelato una spettacolare propensione sia a contagiare la regione, sia a farvi danni. Di lì, vari saggi di un certo spessore in cui i problemi della cultura latino-americana sono affrontati in modo più analitico.
Da citare, in particolare, Las raíces torcidas de América Latina, del 2001 (amazon.com); e Los latinoamericanos y la cultura occidental, del 2003 (amazon.com). Ma anche due sequel del Manuale: Fabricantes de miseria, del 1999 (amazon.it), e El regreso del idiota, del 2007 (amazon.com).
Il Manuale e i due sequel li aveva fatti assieme al peruviano Álvaro Vargas Llosa, politologo e figlio del Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa, che per il Manual aveva scritto la prefazione; e al colombiano Plinio Apuleyo Mendoza, scrittore e ex-diplomatico, nonché amico e biografo di Gabriel García Márquez. Una vicinanza sia pure indiretta con due dei campioni del Boom letterario latino-americano, di cui forse avrebbe potuto essere a sua volta un esponente. Oltre a 24 saggi ha infatti lasciato quattro opere narrative, tra cui un romanzo del 2011 che è stato tradotto in italiano (amazon.it) e nella cui prefazione la famosa blogger dissidente cubana Yoani Sánchez osservò che “Montaner non è soltanto un giornalista, ma anche un narratore di razza, una delle voci più competenti e libere della Cuba in esilio”.
Ma, appunto, l’impegno politico lo aveva probabilmente distratto dalla narrativa. Il bello, è che aveva iniziato in chiave castrista. Sul finale del Manuale anche i tre autori ammettevano di “essere stati idioti” a loro volta, citando loro frasi. E ce ne è una dello stesso Montaner allora 16enne, risalente al febbraio del 1959. Il mese dopo la vittoria della Rivoluzione. “Il fine della dittatura batistiana e l’inizio di questa rivoluzione bella porterà ai cubani una tappa di libertà e prosperità, come l’Isola mai ha conosciuti. Chi può dubitare di questo felice destino”.
Lo stesso ingenuo liceale che scriveva queste cose, in realtà, cambiò idea quasi subito, scioccato dallo spettacolo delle fucilazioni di massa. Provò dunque a organizzare uno sciopero universitario e nel 1960 finì in galera,condannato a vent’anni di reclusione come “terrorista” e “agente della Cia”.
Ma qua, chiudiamo con il ricordo che mi aveva riportato Montaner, e che fu peraltro anche trama di un suo racconto. “Scampai alla condanna a morte perché ero minorenne. Ma il pubblico ministero, divenuto molti anni dopo ministro della Giustizia di Fidel, cercò in tutti i modi di dimostrare che avevo più di diciotto anni, per farmi fucilare. Mise in dubbio la verità della mia iscrizione all’anagrafe, mi fece perfino sottoporre a visita medica. Una volta appurato però che ero davvero un minorenne, non potevano mandarmi in un penitenziario, ma in una casa di correzione, dove la sorveglianza era meno asfissiante. Comprai per settantacinque centesimi una lima da un ex-detenuto che dopo la rivoluzione era stato trasformato in aiuto-guardia, segai le sbarre e saltai dalla finestra. Dopo di me, saltò fuori un altro. Quando provò il terzo, i secondini se ne accorsero e lo freddarono a fucilate. Io mi salvai. Ero magro e avevo paura, quindi scappavo veloce… Per un po’ rimasi nascosto all’Avana, con l’aiuto di un gruppo clandestino di anarchici. Poi mi rifugiai all’ambasciata del Venezuela”.
Maurizio Stefanini