In occasione di un recente convegno organizzato nella Sala Caduti di Nassirya al Senato intitolato “Le strategie di influenza e ingerenza di potenze straniere in Italia: gli approcci russo e cinese a confronto” promosso dall’Istituto Gino Germani con il Comitato Globale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella, e The Global News.
Un contributo molto significativo è stato quello di Jianli Yang, attivista cinese per i diritti umani. La sua straordinaria azione a favore della democrazia ha avuto inizio nella Cina degli anni ’80 quando, da astro nascente del Partito Comunista Cinese (PCC), era rimasto disgustato dalla dilagante corruzione dal carattere sempre più dogmatico, violento e totalitario decise di uscirne ancor prima dei tragici eventi di Piazza Tiananmen.
Non esitò quindi a prendere parte alle manifestazioni per la libertà e la democrazia che culminarono nella repressione nel sangue il 4 giugno 1989. Era in quella piazza quando i carri armati dell’esercito cinese irruppero e Yang riuscì a salvarsi dal massacro.
Incarcerato in Cina per cinque anni, uno in isolamento, Yang è stato liberato nel 2008 grazie ad una campagna internazionale alla quale si è unito anche il Presidente Bush. Trasferitosi a Washington come rifugiato politico, non ha smesso di denunciare i gravissimi abusi dei diritti umani commessi dal PCC, le ingerenze nei Paesi asiatici e occidentali e le politiche coercitive attuate per piegare i partner economici della Cina agli interessi nazionali di Pechino e del PCC.
Nel dibattito in Senato, il dissidente si è soffermato sui gravi attriti sui valori fondanti delle democrazie rispetto alle dittature. Si determina un conflitto “freddo”, come l’ha definito Yang, generato dalla negazione assoluta di Pechino dei diritti umani fondamentali e dalla volontà di modificare l’ordine internazionale secondo la dottrina di Xi Jinping del “socialismo con caratteristiche cinesi”.
Interessante è stata poi durante il convegno la ricostruzione storica sul ruolo dei servizi d’intelligence in Russia e sull’evoluzione da KGB a FSB, a iniziare dai cekisti sovietici ai quali Putin si ispira, con osservazioni sull’ascesa di Putin al potere e la sistematica eliminazione di moltissimi esponenti dell’opposizione, di voci dissenzienti e delle ONG.
Rispetto alle interferenze russe si è stimato che la Russia sia responsabile di circa il 60% degli attacchi ibridi effettuati in tutto il mondo. Percentuale che salirebbe all’80% nei confronti dell’UE. Mosca spende ogni anno circa due miliardi di dollari in specifiche attività di disinformazione.
Su questo è emersa la proposta di creare strutture governative dedicate, per l’analisi e il contrasto della disinformazione e di tutte le minacce ibride.
Sulle interferenze cinesi, si è sottolineata l’ampiezza delle strategie di manipolazione e disinformazione a livello internazionale, mentre verso la propria opinione interna il PCC punterebbe soprattutto sulla fabbricazione di notizie false per condizionare a fondo i cittadini.
L’offensiva della propaganda cinese ha ricevuto un impulso determinante dagli accordi bilaterali siglati con organi di stampa occidentali. Il fenomeno ha assunto – si è ancora sottolineato nel dibattito – aspetti inquietanti in Italia. Il sistema mediatico italiano si è trovato impreparato, come dimostrato dalla superficialità con la quale sono stati stipulati tali accordi ignorando qualsiasi basilare reciprocità che avrebbe dovuto esser assicurata ai media italiani e cinesi. Emblematico – è stato ancora osservato – è il caso dell’accordo tra Xinhua ed ANSA, che concedeva ampi spazi a temi propagandistici e alle agenzie del PCC, con la pubblicazione di articoli sponsorizzati, ma non presentati come tali, dal governo cinese.Interessanti anche le considerazioni sugli effetti perversi dell’adesione della Cina al WTO nel 2001 con il trasferimento di investimenti, lavoro e tecnologie italiane verso la Cina, ancora una volta senza alcuna seria reciprocità e garanzia di rispetto delle norme internazionali. Una mutazione che ha causato una significativa perdita del know-how e della produttività e incoraggiando, anche in virtù della firma del Memorandum d’Intesa, atteggiamenti coercitivi di Pechino nei nostri confronti.
Ed è proprio Jianli Yang ad aver invitato il governo italiano a ben riflettere prima di rinnovare il Memorandum d’Intesa nell’ambito dei progetti della Belt and Road Initiative cinese. Quando, quattro anni fa, l’Italia ha firmato l’intesa – ha ricordato il dissidente cinese – l’allora Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si illudeva di rilanciare l’economia italiana attraverso l’aumento delle esportazioni italiane in Cina.
Tuttavia, l’Italia – ha ancora notato Yang – ha guadagnato assai poco dalla sua partecipazione alla BRI cinese. Le esportazioni verso la Cina sono passate da 13 miliardi di euro nel 2019 a solo 16,4 miliardi di euro nel 2022, mentre le esportazioni cinesi verso l’Italia sono cresciute da 31,7 miliardi di euro a 57,5 miliardi di euro nello stesso periodo.
L’aspetto più preoccupante è l’accresciuta influenza politica e di controllo finanziario di aziende italiane da parte di entità cinesi e con essa il rafforzamento del combinato disposto costituito dalle politiche predatorie della trappola del debito e delle rappresaglie economiche.
Da un lato, Pechino propone e realizza importanti progetti infrastrutturali finanziati con mutui capestro, clausole di riservatezza, tassi di interesse elevati e inserimento di funzionari del PCC nei Consigli di Amministrazione di aziende al fine di controllare ed estorcere concessioni politiche e commerciali, o accordi di ristrutturazione del debito a condizioni assai discutibili.
Yang ha evidenziato come tutto ciò gravi in modo distruttivo su una quindicina di Paesi che hanno sottoscritto tali progetti, nonostante le aperture, più apparenti che reali, ad ipotesi di ristrutturazione del debito da parte dal governo cinese.
In merito alle rappresaglie economiche che Pechino fa scattare nei confronti di Paesi che raggiungono accordi commerciali con attori non graditi (solitamente Taiwan) o si attira l’attenzione sui diritti fondamentali in Cina, Yang ha insistito sulla necessità di approntare una strategia di sicurezza che riguardi specificamente la sfera economica.
La sua proposta mira ad istituire una “NATO economica” basata sui valori democratici, estendendo al campo dell’economia il principio della difesa collettiva della NATO. Un’alleanza in grado di fronteggiare le perdite economiche che aziende o Paesi interi possono subire a causa dell’uso sempre più disinvolto di Pechino della coercizione.
Come evidenziato da Jianli Yang, in gioco non vi è solo il Memorandum e la crescita economica italiana ma, visto il partner in questione che l’UE ha definito “avversario sistemico dell’Unione Europea”, la salvaguardia dei principi democratici in conformità con il diritto internazionale.
In un contesto internazionale il cui assetto finanziario, contaminato dall’azione politico-economica di Pechino, diviene sempre più informale, meno istituzionalizzato e meno trasparente, il vero memorandum d’intesa da siglare è quello per la sicurezza nazionale, la ricerca, lo sviluppo tecnologico con gli alleati euroatlantici e con l’intero mondo democratico.
Sen Giulio Terzi