La mattina del 30 agosto una dozzina di militari appartenenti alla Guardia Repubblicana, all’esercito e alla polizia sono apparsi sul canale tv pubblico Gabon 24, annunciando la deposizione del presidente Ali Bongo Ondimba (youtube.com).
È l’ottavo colpo di stato in Africa Occidentale e Centrale dal 2020: dopo, nell’ordine, il Mali il 18-19 agosto 2020 e di nuovo il 24 maggio 2021; il Ciad il 20 aprile 2021; la Guinea il 5 settembre 2021; il Sudan il 25 ottobre 2021; il Burkina Faso il 30 settembre 2022; il Niger il 26-28 luglio. Sono tutti Paesi francofoni, a parte il Sudan, dove poi si è acceso l’ulteriore dramma della guerra civile tra fazioni militari (theglobalnews.it). Sono tutti Paesi del Sahel infiltrati dal terrorismo jihadista, ma con l’eccezione appunto del Gabon, che si trova nell’Africa Equatoriale. E sono Paesi in cui appunto la paura del jihadismo e storici risentimenti verso la ex-madrepatria Francia hanno creato un varco per l’influenza di Russia e Cina (theglobalnews.it). Ma anche qui il Gabon fa eccezione, nel senso che comunque il regime militare non sta aizzando sentimento anti-Parigi (lemonde.fr).
Il punto è che però in Africa non ci sono solo i problemi del jihadismo, dei risentimenti anticoloniali o dell’influenza russa e cinese, oltre che ovviamente quelli dello sviluppo. Le elezioni che si erano tenute in Gabon il 26 agosto evocano appunto un’altra emergenza, che è quella della correttezza dei processi democratici. Giusto tre giorni prima si era infatti votato nell’anglofono Zimbabwe, e dopo aver preso il 44% dei voti contro il 52,6% del presidente Emmerson Mnangagwa l’oppositore Nelson Chamisa aveva denunciato una “gigantesca frode” (theguardian.com).
Il Senegal, dove si vota il 25 febbraio, è stato un pioniere del ritorno della democrazia in Africa, con il ripristino del pluripartismo dal 1974 e nel 2000 quella vittoria elettorale di Abdoulaye Wade che fu la prima alternanza pacifica al governo nella storia africana per via elettorale. Ma lo scorso 17 febbraio, il giorno prima che fosse rivelata la data delle prossime elezioni, il candidato dell’opposizione Ousmane Sonko è stato prelevato con la forza dal suo veicolo nel bel mezzo di manifestazioni fuori dal tribunale di Dakar dove si stava svolgendo il suo processo, nell’ambito di una causa civile contro di lui intentata dal ministro del turismo del Senegal per diffamazione e insulti pubblici. Il 3 luglio 2023, a seguito delle proteste su Sonko (theglobalnews.it), il presidente in carica Macky Sall ha dichiarato che non avrebbe cercato la rielezione per un terzo mandato.
Il 14 luglio Sonko ha annunciato una candidatura alla presidenza che potrebbe però essere non valida per via della condanna a due anni di reclusione rcevuta a giugno, e il 31 luglio il suo partito è stato pure sciolto perchè accusato di reiterati appelli alla violenza. Una decisione in seguito alla quale ci sono state nuove proteste che hanno fatto due morti. Il quadro è reso ancora più incandescente per il mandato d’arresto internazionale che il Senegal ha emesso per “crimini e delitti” contro l’avvocato franco-spagnolo Juan Branco: difensore di Sonko che aveva annunciato il 22 giugno di aver sporto denuncia in Francia e chiesto l’apertura di un’inchiesta presso la Corte Penale Internazionale contro il presidente Macky Sall. Arrestato il 5 agosto, Branco è stato poi espulso il 7 agosto (lemonde.fr).
Il problema di deficit democratico del Gabon è probabilmente ben indicato dalla constatazione che in 63 anni di indipendenza aveva avuto finora solo tre presidenti: padre e figlio negli ultimi 56. Dopo la morte di Léon Mba, il 2 dicembre 1967, lo sostituì infatti il vicepresidente Albert-Bernard Bongo, che nel 1973 quando si convertì all’Islam prese il nome di Omar, mentre il figlio 14enne Alain-Bernard divenne Ali. Omar è stato appunto presidente fino alla morte, l’8 giugno 2009 dopo 41 anni, 6 mesi e 6 giorni al potere. Dopo il breve interim della presidente del Senato Rose Rogombé dal 16 ottobre 2009 era appunto diventato presidente il figlio Ali, ora deposto.
Nel 1968 Bongo padre aveva pure stabilito il partito unico, seguendo una moda dell’epoca. Nel 1990 aveva ristabilito il pluripartismo, dopo che anche in Gabon si era estesa l’ondata di rivolte africane per la democrazia accese dall’esempio dell’Est Europa. Alle elezioni del 1993 Omar Bongo era stato in effetti rieletto con solo il 51,18%, ma nel 1998 il suo suffragio era ricresciuto al 66,88, e nel 2005 era addirittura arrivato al 79,18. Segnali inequivocabili di un rapido deterioramento dell’apparenza democratica.
Col passaggio al figlio, lo spazio democratico si era riaperto, tant’è che al voto del 30 agosto 2009 Ali aveva preso solo il 41,73%. Era diventato presidente solo grazie alla divisione suicida dell’opposizione tra André Mba Obamw e Pierre Mamboundou, che avevano ottenuto rispettivamente il 25,88 e il 25,22%. Anche il 27 agosto 2016 era potuto prevalere solo di una incollatura: 49,8 contro il 48,23% di Jean Ping, figlio di un imprenditore di origine cinese e della figlia di un capotribù. Ma il 26 agosto era arrivato a un 64,27 duramente contestato da Albert Ondo Ossa: l’economista candidato da un fronte delle opposizioni, rimasto al 30,77%. “Una frode orchestrata dal campo Bongo” aveva denunciato due ore prima della chiusura delle votazioni, rivendicando la vittoria e esortando il presidente a “organizzare, senza spargimento di sangue, il trasferimento del potere” sulla base di un conteggio alternativo. La denuncia era in particolare che il risultato sarebbe stato alterato per l’improvviso afflusso di voti dubbi da alcune zone.
I risultati ufficiali erano stati annunciati nel cuore della notte alle 3 del mattino, le 4 italiane, dalla televisione di Stato senza che fosse stato fatto alcun annuncio in anticipo dell’evento. In pieno coprifuoco, quindi, e mentre Internet era stato tagliato in tutto il Paese: due misure decretate dal governo di Bongo sabato prima della chiusura dei seggi elettorali, per impedire, a suo dire, la diffusione di “false notizie” e possibile “violenza”.
“Le elezioni generali del 26 agosto 2023 e i relativi risultati dubbi vengono annullati”, hanno annunciato i militari in tv. Le frontiere sono state però chiuse fino a nuovo avviso, e sono state sciolte tutte le istituzioni della Repubblica: governo, il Senato, l’Assemblea nazionale, Corte costituzionale, Consiglio economico, sociale e ambientale, il Centro elettorale gabonese. “Riaffermiamo il nostro attaccamento al rispetto degli impegni del Gabon nei confronti della comunità nazionale e internazionale” è stato promesso: il che non ha impedito la sospensione da parte dell’Unione Africana.
Anche la società francese Aeranet, primo produttore privato mondiale di manganese proprio grazie ai giacimenti esistenti in Gabon, ha annunciato il 30 agosto la sospensione delle attività nel Paese. Oltre a essere membro dell’Opec con una produzione di 181.000 barili di greggio al giorno, ottavo produttore di petrolio dell’Africa sub-sahariana; oltre ad avere ferro; il Gabon è infatti il terzo produttore mondiale di manganese, dopo Sudafrica e Australia. Con poco più di 2 milioni di abitanti significa il settimo reddito pro capite dell’Africa, anche se la distribuzione è in realtà estremamente ineguale e i Bongo sono accusati di cleptocrazia. Il manganese, in particolare, è un minerale particolarmente utilizzato nella siderurgia. La Repubblica Popolare Cinese è il sesto produttore mondiale (in mezzo ci sono Brasile e Ghana), ma il 20% del suo fabbisogno nazionale di manganese dipende dal Gabon, per il quale questo minerale rappresenta la principale fonte di introiti. La decisione di Aeranet potrebbe determinare una inversione di tendenza nell’andamento dei prezzi del minerale, che da un picco di 7000 $ al chilo è arrivato a toccare i 2000 $.
Il generale Brice Oligui Nguema, comandante della Guardia Repubblicana designato presidente a interim, parlando con le Monde ha sottolineato i problemi di salute di Bongo (lemonde.fr), ma Albert Ondo Ossa gli chiede di passargli il potere, come vincitore delle elezioni (lemonde.fr). Comunque, Brice Oligui Nguema è cugino di Bongo. In qualche modo, insomma, la dinastia continua.
Maurizio Stefanini