Classe 1951, Eugenio Tironi Barrios (tironi.cl) a 18 anni si era iscritto alla Universidad Católica de Chile per studiare Architettura. Ma dopo due anni nel clima di mobilitazione dopo l’elezione alla Presidenza di Salvador Allende passò alla più militante Sociologia. E dopo altri due anni in seguito al golpe con cui Augusto Pinochet l’11 settembre 1973 rovesciò il governo di Unidad Popular di Salvador Allende abbandonò gli studi per passare alla resistenza come dirigente del Movimiento de Acción Popular Unitaria (Mapu): un partito nato da una scissione di un’ala di sinistra del Partito Democratico Cristiano (Pdc) che aveva aderito alla coalizione di Unidad Popular, e che ne era poi divenuta una componente radicale. Mapu, letteralmente “terra” è il nome del Cile nella lingua degli indigeni Mapuche, letteralmente “gente della terra”… Dopo altri due andò imn esilio, a dirigere l’organizzazione del Mapu all’estero. A Parigi e poi a Città del Messico, rientrò in Cile nel 1979, e si mise a lavorare come ricercatore nel programma di economia del lavoro della Academia de Humanismo Cristiano. Entrò anche nel Gruppo dei 24: un primo tentativo di unire l’opposizione a Pinochet. Iniziò a scrivere in varie riviste, fondò una Ong dedita alla ricerca e allo studio dei nuovi movimenti sociali, divenne il teorico di “renovación socialista” che intendeva superare l’estremismo del vecchio Partito Socialista di Allende alla luce delle esperienze di leader socialisti europei di successo come Mitterrand in Francia, González in Spagna e Craxi in Italia. Nacque così una “convergencia socialista” in cui gran parte del Mapu e di altri partiti di sinistra non comunista confluirono nel nuovo Partito Socialista. Nel 1983 tornò a Parigi a fare con Alain Touraine un dottorato in Sociologia alla École des hautes études en sciences sociales. La sua tesi si intitolava Autoritarismo, modernizzazione e marginalità, ed era un primo tentativo di fare una sociologia del pinochettismo. Di ritorno in Cile fece importanti studi sui “pobladores”, abitanti delle aree marginali. Nel contempo fu uno dei dirigenti del fronte delle opposizioni. Dopo aver scritto nel 1986 il libro El Liberalismo Real. La sociedad chilena y el régimen militar (books.google.it, che fu un best-seller, nel 1988 scrisse Los Silencios de la Revolución. Chile: la otra cara de la modernización (books.google.it): risposta a Chile Revolucion Silenciosa (amazon.com) di Joaquín Lavín, economista che celebrava il successo delle riforme economiche del regime. I due furono appunto i testi di riferimento nella campagna per il referendum del 1988. Lavín sarebbe diventato poi sindaco di Santiago e candidato alla Presidenza, anche se nella corsa per la leadership della destra sarebbe stato sconfitto dal magnate Sebastián Piñera: presidente nel 2010-14 e 2018-22, e che al referendum del 1988 aveva votato contro Pinochet. Tironi sarebbe stato director de comunicaciones del presidente della transizione alla democrazia, il democristiano Patricio Aylwin. In seguito diresse anche la campagna del socialista Ricardo Lagos, che nel 1999 fu eletto, e del democristiano Eduardo Frei Ruiz-Tagle, che invece nel 2009 fu sconfitto dopo essere stato presidente tra 1994 e 2000. Soprattutto però ha continuato a lavorare da sociologo, ed ha fondato una delle più importanti società di consulenza del Paese. L’autore di queste note lo conobbe nel 1989 a Santiago prima del referendum. Mi era stato indicato come un fermo critico del modello economico pinochettista, e rimasi sorpreso quando invece ne sentii parlare in termini che mi sembravano quasi positivi. “Scusi, ma lei mi sta difendendo il modello economico?”, gli chiesi. Mi spiegò che siccome stava funzionando, sarebbe stato bene che la democrazia continuasse a farlo funzionare, pur con tutti i necessari aggiustamenti. Cito a memoria il suo commento finale: “sicuramente sarebbe stata meglio una democrazia. Ma siccome c’è stata invece purtroppo una dittatura, meglio una dittatura che lascia in eredità una economia in ordine che una dittatura che lascia in eredità una economia in pezzi, come abbiamo visto in Argentina”.
Crediamo dunque che sia tuttora uno degli interlocutori migliori a chiedere un commento su questo mezzo secolo di storia cilena, a 50 anni dal golpe.
Sì, ne è passata di acqua sotto i ponti… Definitamente, noi in Cile siamo riusciti a fare una transizione pacifica. Abbiamo ottenuto la democratizzazione del Paese; siamo riusciti a mitigare gli aspetti più radicali del modello neoliberale, introducendo nel sistema elementi socialdemocratici; abbiamo affrontato problemi importanti in materia di diseguaglianza, in materia di inclusione, del mondo marginale, in particolare del mondo indigeno. In fin dei conti, siamo stati una società che è avanzata. Abbiamo purtroppo iniziato ad avere problemi 10-12 anni fa, quando ha iniziato a prendere colpi sia la sua crescita economica, sia la lotta contro la disuguaglianza. Il mondo politico non fu capace di reagire nel modo giusto, introducendo le necessarie riforme. Iniziò allora un sentimento di malessere che scoppiò di nuovo nell’ottobre dell’anno 2019, portando a uno sconvolgimento che stiamo ancora cercando di superare impostando un nuovo corso. C’è stato così un processo costituzionale ed è andato al potere un governo nuovo, giovane, di una nuova generazione che è nata dopo la dittatura, e in alcuni casi anche dopo la transizione. Questo processo ha avuto le sue difficoltà, i suoi avanzamenti, i suoi arretramenti, ma per lo meno il filo non si è mai spezzato. Non abbiamo avuto queste tipiche situazioni di tanti Paesi latino-americani dove si producono a volte golpe militari o golpe bianchi, dove si interrompe il processo democratico, dove alcuni presidenti si piazzano al potere più tempo che il dovuto. Il Cile ha mantenuto una perfetta continuità democratica. Io credo che possiamo essere soddisfatti, anche se c’è ancora molto da ottenere. A partire dalla nuova Costituzione in discussione.
Una cosa che colpisce è che alle ultime elezioni si sono affrontati due candidati che da fuori del Cile sono stati dipinti come due estremisti: José Antonio Kast di destra; Gabriel Boric di sinistra. Eppure Kast, dipinto come un nazista, quando ha visto che Boric stava vincendo è andato cavallerescamente alla sede del comando elettorale del rivale e gli ha fatto le sue congratulazioni. Una cosa che orma non vediamo più neanche negli Usa o in Europa. A sua volta Boric si è scontrato duramente con Lula sia quando il presidente brasiliano ha tentato di minimizzare le involuzioni autoritarie di governi di sinistra come quello di Maduro in Venzuela sia; per le sue posizioni di fatto filo-Putin (theglobalnews.it). Una cosa che colpiva in Cile nel 1988 e 1989 era il modo in cui tutti quanti riconoscevano come la democrazia fosse stata distrutta per il settarismo, l’estremismo e gli errori di tutti i partiti, e assicuravano che questi errori non sarebbero stati ripetuti. Anche due personaggi estremi come Kast e Boric alla fine sono figli di questa riflessione?
Sì, sono d’accordo, sono pienamente d’accordo con questa analisi. Forse noi in Cile abbiamo quelle che in termini internazionali potremmo chiamare estrema sinistra e estrema destra, ma sinistra radicale e destra radicale internazionali non corrispondono a quello che vediamo in Cile. Boric è una nuova sinistra il cui riferimento storico è il Podemos di Spagna, ma è un personaggio profondamente convinto della democrazia e con tutto ciò che questo implica. Della democrazia borghese, per utilizzare la terminologia degli anni ’60. Ed è anche totalmente convinto sulla difesa dei diritti umani. È il prodotto dell’insegnamento della dittatura: su ciò non c’è nessun dubbio. Ma lo stesso succede con Kast a destra. Non è che ammira proprio Pinochet: a volte però lo tollera, lo giustifica. Però è un tipo che gioca con le armi della democrazia, partecipa alle istituzioni della democrazia. Oggi è il suo partito che domina il Consiglio Costituzionale, che è incaricato di fare la nuova Costituzione. Sta in Congresso, ossia è un attore in più nel gioco democratico. Ed è molto lontano da posizioni come quelle di un Bolsonaro o di un Trump: tanto in termini programmatici come carattere, stile o forma di leadership. È piuttosto un bolscevico della destra, non un terrorista della destra. È un tipo molto organizzato che ha un partito molto centralizzato, è molto disciplinato. Ma non è un uomo che sta sparando sul sistema democratico.
A mezzo secolo dal golpe, su Pinochet resta questa doppia immagine. Il dittatore più spietato e l’autore di una riforma economica di successo.
Restando come sedimento storico. Pinochet è colui che ha fatto un colpo di Stato contro un governo democratico, e soprattutto con un livello estremo di violenza. Una violenza che durò 10 anni, con una condotta molto crudele verso i suoi oppositori. Pinochet ha significato massicce violazioni dei diritti umani, e questa eredità è rimasta molto marcata in Cile e anche nel mondo. Però è anche che come a provare a cancellare la colpa nei molti anni che è rimasto al potere Pinochet ha fatto alcune riforme economiche che sono in linea con quelle che si sono fatte in buona parte del mondo, e che puntavano ad arrivare a un modello di capitalismo più in stile Usa. Molte di queste riforme funzionano anche al giorno di oggi. Non c’è dubbio che il regime di Pinochet è un punto di svolta nella storia cilena, non solo per ragioni democratiche e dei diritti umani, ma anche per il corso che hanno preso l’economia, la società, la cultura cilene. Il Cile ha acquisito una cultura molto più individualista, molto più capitalista, nel senso più esteso del termine. Sì, questa mescolanza è l’eredità di Pinochet: non c’è nessun dubbio. La cosa curiosa però è che dopo 50 anni, come lo stiamo vivendo in questa ora, quella che ricordiamo e quella che sta presente è la figura di Allende. Stiamo commemorando la vita dello sconfitto, non del trionfatore. Questo è il paradosso della storia, in realtà.
Ma perché si arrivò al golpe? Jared Diamond nel suo recente libro su come rinascono le nazioni ha esaminato anche il Cile (ibs.it). Ha sottolineato ad esempio un effetto perverso della Rivoluzione Cubana, per cui la borghesia cilena si radicalizzò a destra per paura che Allende la costringesse all’esilio a Miami come era successo con Fidel Castro. D’altra parte Enrico Berlinguer costruì la sua strategia del compromesso storico spiegando che l’esperienza cilena mostrava come non si può cambiare una società con solo il 50% più uno, e ci vogliono alleanza più ampie. Poi Allende in realtà il 50% non lo aveva neanche. Aveva avuto il 36,63%. Fu eletto in un ballottaggio al Congresso grazie a un accordo con il Pdc che però saltò quasi subito, lasciandolo con Camere in cui era in grave minoranza.
È stato un lungo dibattito. Io sono d’accordo in questo senso con Berlinguer, e credo la immensa maggioranza delle persone di sinistra concordino con questa diagnosi. Il governo di Allende non ha tenuto sufficientemente in conto il tipo di forze che stava agitando. Non tenne conto del peso della guerra fredda, di come sarebbe stata la reazione degli Stati Uniti di fronte a una potenziale esperienza di socialismo democratico che poi si potrebbe esportare in Europa, cominciando per Italia, Francia e Spagna. E inoltre pretendeva di nazionalizzare il rame. Un altro fattore di cui non ha tenuto conto è stata la reazione della classe media. Il governo di Allende è stato un governo molto rivolto al mondo popolare, ma così è stato percepito dalla classe media come una forte minaccia, e così la classe media si è volta massicciamente a posizioni golpiste. Allende fece anche affidamento eccessivo sulla sua capacità di evitare che le Forze Armate si dividessero o si sollevassero contro il governo. E in ciò si è sbagliato. Il movimento golpista ispirato all’antimarxismo iniziò a crescere molto presto nelle forze armate, secondo i documenti che ormai conosciamo. L’ unica maniera per evitare ciò poteva essere un solido accordo con la Democrazia Cristiana, con la quale c’erano moltissime convergenze. E questo lo tentò, bisogna dirlo. Ci fu un settore della Democrazia Cristiana che pure lo ha cercato, ma alla fine lo sforzo non ha dato frutto. Perché c’erano settori ostili a questa soluzione, tanto nella sinistra che nella Democrazia Cristiana. L’origine della crisi fu questa: la impossibilità di arrivare a un accordo delle forze favorevoli al cambio.
A Santiago nel 1989 qualcuno mi spiegò che la grave inflazione economica che aveva travolto il governo di Allende era stata a sua volta il riflesso di una grave inflazione politica. Un eccesso di domande.
Corretto. Quello che si è prodotto è stato uno straripamento che il governo e i partiti politici non sono più riusciti a controllare. Si è prodotta una rivoluzione di fatto, col mondo popolare che iniziò a prendersi le fabbriche, iniziò a prendersi i campi, cominciò ad avanzare esigenze che non erano trattabili. Il governo cercando il sostegno popolare rispose emettendo banconote in una economia strangolata dal blocco Usa e dalla scarsità di valute, fino ad arrivare a un momento di totale collasso della società e della economia. Questo è un fatto. E da lì un poco il sentimento di fatalismo che regnava nel Cile a metà dell’anno 1973. Incluso un sentimento di fatalismo che invadeva lo stesso Allende. A tutti i suoi interlocutori diceva che sarebbe morto alla Moneda.
Si comparava con Balmaceda. Il presidente che si era suicidato nel 1891 dopo aver perso la guerra civile scatenata dal Congresso contro di lui.
Sì. Assumendo un destino fatale.
Non avendo in Congrsso la maggioranza per fare nazionalizzazioni per legge, i militanti dei partiti di Unidad Popular occupavano proprietà per provocare un intervento amministrativo. I cosiddetti “Cordones”. E copsì si creò una situazione di illegalità di massa.
È corretto.
Anche dall’altra parte si rispose con illegalità. Ma chi cominciò con questa situazione di illegalità di massa?
La situazione di illegalità si produsse principalmente per la mobilitazione popolare avvallata dal partiti di sinistra nella Union Popular. Il Polo Rivoluzionario. Però hanno ragione alcuni ex-dirigenti di questo settore quando dicono che non erano in grado di evitarlo. Era una forza vulcanica, molto difficile contenere. Allo stesso tempo, una cosa che si dimentica e che a sua volta la destra prima dell’anno 1970 sviluppò una forte campagna terrorista. Ci furono almeno due alti comandi delle forze armate che furono assassinati da gruppi di ultradestra. Nell’anno 1973 eravamo arrivati a una situazione di perdita massiccia della legalità, con il crollo dell’economia e una società civile molto mobilitata, e molto polarizzata.
Indubbiamente, le violazioni dei diritti umani di Pinochet sono una cosa grave per la storia cilena. Però c’è una immagine mondiale come se sia stato il più terribile genocida del XX secolo. Fermo restando che anche un morto sarebbe troppo, il Rapporto Rettig dopo il ritorno della democrazia conta 2.279 vittime: 2.115 di violazioni dei diritti umani e 164 di violenza politica (derechoshumanos.net). Vero che in seguito è stato un po’ ampliato…
Tra vittime dirette e desaparecidos, si parla ormai di 4000. Sta emergendo con molta forza una storia occulta che è la storia delle persone che furono detenute illegalmente e che furono torturate. Iniziamo dunque a parlare di cifre molto più considerevoli.
Sì, la cifra sta salendo. Però, ad esempio, il Rapporto Bachelet dell’Onu ha attestato nel Venezuela di Maduro per il 2018 5287 morti per “resistenza all’autorità” attraverso uccisioni extragiudiziali (ohchr.org). E per il 2019 l’Observatorio Venezolano de Violencia ha contato 5283 uccisioni per “resistenza all’autorità” (observatoriodeviolencia.org.ve). In due anni Maduro ha ammazzato il quadruplo che Pinochet in 17 secondo l’Informe Rettig, e più del doppio secondo le ultime stime. E non solo non ha una immagina di assassino analoga, ma Lula addirittura lo invita e dice che è “vittima di narrazioni”… Viene però il dubbio che la responsabilità sia dello stesso Pinochet, che nel 1973 “rappresentò” un golpe di violenza inaudita, ad esempio permettendo di filmare uno stadio pieno di oppositori detenuti. Ottenne il risultato militare di annichilire ogni velleità di resistenza, ma al costo politico di farsi una immagine terribile.
Chiaro. Io credo che il problema non sia tanto nel numero, ma nel fatto che in generale sono stati morti non caduti in combattimento. Erano civili: caso molto distinto da quello dell’Argentina, dove era comunque in corso una lotta armata. Ciò ha avuto un grado di sistematizzazione e organicità proprio di un esercito prussiano, e si è prolungato per 10-12 anni. Ovvio che non c’è stata quasi resistenza, come lei ben dice. E poi si è trasformata in una repressione strettamente politica. Non antisovversiva ma strettamente politica. Assomiglia più allo stalinismo, o se si preferisce al madurismo o al chavismo. E per di più questo è successo in una società che aveva una tradizione democratica. È ciò che ne ha fatto un simbolo così negativo per il mondo intero.
Maurizio Stefanini