Le giornate drammatiche che stiamo vivendo riempiono i nostri cuori per l’orrore delle troppe vittime, dei tantissimi bambini, di un drammatico picco della violenza in un contesto dove però, nella disattenzione diffusa della maggior parte di noi, la violenza è una costante e lo è ormai da molti anni con l’aggravante della mancanza di una speranza, di una prospettiva che possa far pensare che questa violenza possa finire.
Sono lontanissimi gli anni dei tentativi di accordo di Pace, e sembrano ancora più lontani quelli della visionaria proposta di Marco Pannella di garantire con l’ingresso nell’Unione Europea una condizione di diritti per tutti che garantisse la Pace.
È giusto soffermarsi sulle cause politiche geopolitiche della situazione è provare anche a capire quali azioni esterne potrebbero contribuire a cambiarle.
Da un lato la crescita dell’Islamismo in tutto il mondo arabo, anche in quello palestinese che storicamente ne era più distante, legata alle delusioni delle classi dirigenti laiche spesso corrotte ma anche alle ingenti risorse messe in campo in particolare dal regime iraniano per destabilizzare e minare ogni possibile percorso di pace in una alternativa drammaticamente credibile dagli occhi di masse arabe abbandonate ai loro destini. Non solo Hamas, ma il sedicente Isis, la Jihād, Al-Qāʿida in una drammatica concorrenza del terrore e anche di forme di assistenza e al tempo stesso di minaccia e di violenza sulla popolazione inerme in quella prigione a cielo aperto che è diventata la cosiddetta striscia di Gaza.
Dall’altro un vero e proprio cambio della base elettorale dello Stato Israele, una crisi delle sue istituzioni e della laicità del suo approccio, uno spostamento a destra e un crescente estremismo radicale che ha alzato il livello dell’odio e della violenza all’interno della popolazione israeliana e il sostegno a crescenti politiche di violenza e di attacco verso la popolazione palestinese sempre più diffuse e totalmente inefficaci se non controproducenti.
La prospettiva di pace, in particolare quella che passa per il riconoscimento e la formalizzazione della separazione territoriale in due popoli con sue Stati sembra ormai uno slogan del passato provo di fondamento. Impraticabile sul terreno per la frammentazione è il libero di mescolamento e forse anche insensato in un tempo in cui gli stati nazionali come concepito a fine ‘800 mettono il luce tutti i loro limiti anche in situazioni apparentemente più praticabili.
Due Stati, va detto, con il loro carico di apparati militari, metterebbero in campo probabili dinamiche violente se possibile persino superiori alle attuali.
Ha allora senso provare a formulare almeno una ipotesi alternativa su cui provare a impostare un lavoro. Una ipotesi con un suo fondamento e che magari riparta proprio da quella idea visionaria che aveva allora riscontrato un consenso importante tra la popolazione. E che oggi potrebbe trovare nuovi interlocutori. Una forma di governo federale dell’intera area, inserita nel contesto e sotto la protezione anche formale dell’Unione Europea, che apra anche il tema dell’Europa e del suo rapporto con l’altra sponda del mediterraneo, e che garantisca diritti, pluralismo, democrazia, ampi spazi di autogoverno delle comunità e una prospettiva di vera convivenza, per quanto difficile, invece della illusoria prospettiva di una separazione impraticabile che alimenta solo nuova violenza.
Roberto Rampi